I
                  Cerco di
mettere ordine  
                  Nella mia
vita 
                  Buttando
tutto all'aria,  
                  Gli impegni,
gli stretti orari 
                  E gli
appuntamenti
più urgenti  
                  Che mi
attendono nella giornata  
                  Passo
stancamente
in rassegna  
                  Nella mia
mente acciaccata 
                  Sperando
di dimenticarli per sempre,  
                  E ogni
mattina mi rammarico,  
                  Andando
al lavoro con lena ed impegno, 
                  Che
nell’infanzia
lontana 
                  Io mai
appresi a memoria  
                  I nomi
di tutti gli uccelli dell'aria  
                  E degli
alberi che vedo fuggire  
                  Inafferrabili
nei finestrini 
                  Ai bordi
dell'autostrada. 
                  Oggi,
inoltre,
un po' più folle del solito, 
                  Mi illudo
ed immagino che il cielo impassibile 
                  Rifletta
una casta e composta benevolenza 
                  Verso i
miei poveri sforzi 
                  E che il
sole mi accompagni 
                  Al lavoro
con un sorriso senza rimproveri. 
                  Poiché
da tempo ho compreso 
                  Che spesso
nel cielo gli uomini  
                  hanno visto
e vedono le loro passioni. 
                  Oh non
andate via, dolci amiche, 
                  Io chiedo
poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo 
                  Povero
me che vendo accendini e sigarette 
                  E fazzoletti
di carta a pacchetti. 
                  Giunto al
chilometro quarantasette 
                  Sono
già
più prossimo ad attingere 
                  Una
più
piena e più compiuta follia  
                  E cado
in un deliquio senza ritegno: 
                  Arrivo
a immaginare che milioni di flauti  
                  Cantino
lodi in mio onore (povero Giovanni!) 
                  Con tersa
furia in un cielo accecante, 
                  E che una
estate lucente e senza sudore  
                  Mi lavi
il viso e la pelle e i lunghi capelli 
                  Con menta
verde, buon shampoo e freschissima crema, 
                  E che la
semplice allodola mattutina 
                  Canti
acutissima
il suo oboe sfrenato  
                  Ed il cuculo
il suo corno inglese tra le verdi siepi 
                  Della grande
pianura del Nord. 
                  Come se
ancora trionfassero antichissime ere, 
                  In cui
la natura circondava benigna  
                  Un uomo
felice e assorto in assedi  
                  E amori
cortesi e castelli 
                  Come un
bambino. Oh, non andate via, dolci sorelle 
                  Io chiedo
poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo 
                  Povero
me che vendo accendini e sigarette 
                  E fazzoletti
di carta a pacchetti. 
                  Ormai evidentemente
impazzito, 
                  Abbandono
il carro argentato 
                  E i fissati
orari e la strada asfaltata 
                  E mi avvio
in processione nel bosco  
                  Seguito
da un battaglione di sogni, 
                  Scelti
con cura certamente non degna 
                  Di più
apprezzabile impiego 
                  tra quelli
più bizzarri e inspiegabili, 
                  Fastosamente
annunciati dalle ombre rullanti 
                  Di Lorenzo
il magnifico bifolco  
                  Al guinzaglio
di un maiale, 
                  Di Antonio
mezzafaccia 
                  (Il tenero
porcospino!), di Basilio il semplice 
                  E di Roberto
il rosso, triste amico di un tempo, 
                  Con le
tasche gonfie di tutte le migliori pastiglie  
                  Portatrici
di felicità. Poi ripongo a terra 
                  L'elmo
e il pennacchio e mi sogno  
                  Vestito
da prete che raglio come un asino 
                  E corro
insensatamente felice 
                  Su un oceano
di erba, tuttavia inseguito  
                  Da un
rabbioso
reggimento di rimpianti incappucciati  
                  Che mi
volgono piangenti la schiena 
                  Ma di cui
sono pur sempre  
                  Il più
disperato dei capitani. 
                  Oh fuggite,
andate via, frettolose visioni, 
                  Orribili
sogni senza prezzo, 
                  Io chiedo
poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo 
                  Povero
me che vendo accendini e sigarette 
                  E fazzoletti
di carta a pacchetti. 
                  Poi, rotolando
sempre più in basso 
                  E senza
vergogna alcuna, credetemi,  
                  Mi vedo
addirittura amato  
                  Da tutte
le donne del mondo (sic!) 
                  Le vedo
occupare acclamanti  
                  Un intero
stadio di calcio,  
                  Una splendida
candida rosa.  
                  Esse ridono,
parendo davvero felici  
                  (Povero
me, perdonatemi!) 
                  Di attendermi
giulive, pazienti e adoranti, 
                  Che io
torni dal diuturno impiego, fatica di Sisifo. 
                  Così
mi aspettano presso il focolare 
                  Intente
nelle solite faccende di casa, 
                  Senza
inganni,
senza timori e rammarichi  
                  Dimentiche
delle delusioni 
                  Imperdonabili
e numerose 
                  Da me
goffamente
perpetrate 
                  Ogni giorno,
in un tempo lontano e senza riposo. 
                  Esse
dimenticarono
perfino 
                  La spazzatura
lasciata a muffire  
                  In tutti
gli angoli possibili 
                  E
immaginabili
del loro cuore. 
                  Oh, non
andate via, dolci ninfe 
                  Io chiedo
sempre di meno ogni giorno che passa 
                  E dimentico
sempre più cose e più nomi 
                  All'angolo
della strada, non lasciatemi solo 
                  Povero
me che vendo accendini e sigarette 
                  E fazzoletti
di carta a pacchetti. 
                  Lo so, salto
di palo in frasca  
                  Senza
preavviso,
ma ora vi dico  
                  E qui seduta
stante dichiaro 
                  Che un
giorno mio padre mi regalò un falco, 
                  Le cui
piume avevano giocato con il vento del Nord 
                  Sette volte
cento non so quanti 
                  Anni prima,
in un cortile Andaluso 
                  Nel cui
centro giaceva un libro perduto di favole. 
                  Oh, di
certo voi non sapete quanto mi amava 
                  Mio padre,
e io, al pari di voi, 
                  Ancora
non so esattamente 
                  Quanto
lo abbia amato. 
                  Mia sorella
lavorava per me in piena notte, 
                  Vergando
con folli segni uno schermo magico, 
                  Mentre
io raccontavo favole antiche 
                  A una miriade
di festanti nipoti acquisiti, 
                  E mia madre
mi salutava dall'orizzonte, 
                  Dall'alto
di una scala scintillante 
                  Circondata
da tutti gli angeli del cielo di Abramo, 
                  Di Isacco
il triste e del furbo Giacobbe, 
                  Piangendo,
io non saprei dirlo ancora adesso, 
                  Non so
se di eterno dolore  
                  O di durevole
serenità. 
                  Ella si
asciugava diligentemente  
                  La fronte
e le guance, 
                  E la manica
della sua camicia 
                  Si bagnava
di sudore e di lagrime.  
                  Oh non
andate via, amate megere, passanti spietate, 
                  Io chiedo
veramente così poco 
                  All'angolo
della strada, non lasciatemi solo 
                  Povero
me che vendo accendini, sigarette 
                  E fazzoletti
di carta a pacchetti. 
                  E non mi
mancava il suon di Lei, 
                  Gradito
come il sorriso di un mare  
                  Disteso
e mai turbato dal vento. 
                  Stoltamente
mi pareva di ricordare 
                  Che non
fosse mai salita sulle navi Frigie  
                  Con il
principe giudice scoccatore di frecce, 
                  Volgendo
la prua ad oriente, e i buoni scalmi 
                  A Nord
e a Sud, ma che pietosa e nata da uova, 
                  Fosse ancora
con me, che ancora 
                  Mi
accompagnasse
ogni giorno con pensieri insondabili 
                  Lungo la
riva risonante del mare canuto e infecondo, 
                  Mi
accompagnasse
al lavoro, me Re e Sacerdote, 
                  A sacrificare
cosce grasse di buoi gambestorte 
                  All'arco
d'argento e all'occhiazzurra  
                  E allo
Zoppo divino. In quello stesso preciso momento, 
                  Io sapevo
che il mio amico migliore  
                  Viveva
nella città ben costruita 
                  Che gli
avevo donato dopo la guerra 
                  Per tenermelo
per sempre vicino, 
                  Per tenerlo
con me in serena vecchiaia, 
                  Per
trascorrere
con lui interminabili notti 
                  Dispersi
in rievocazioni infinite 
                  Di giovani
giorni passati. Ma tutto questo  
                  Ben presto
dileguava come un’illusione, 
                  E sfuggiva
al mio braccio. La mia casa 
                  Era vuota
e la mia ninfa era svanita. 
                  Io, amici,
io non ero stato 
                  Che un
passante goffo e importuno 
                  Un breve
momento nella sua inafferrabile vita,  
                  E sebbene
avessi provato entrambi i piaceri, 
                  E sebbene
avessi già previsto e presofferto tutto 
                  Non avevo
trovato risposta alla sua domanda. 
                  Chi bussa
ancora alla mia porta?  
                  Tu, ignoto
visitatore 
                  non andar
via, tu che ancora 
                  non mi
hai detto il tuo nome, 
                  Credimi:
io ti aprirò sempre gentilmente il portone, 
                  Ogni giorno
che passi 
                  Perfino
se non sei un amico dimenticato da tempo, 
                  Ma solo
un venditore ansioso 
                  Di rifornirmi
a dovere di accendini e sigarette 
                  E fazzoletti
di carta a pacchetti. 
                  Pochi giorni
dopo raccontai le mie sventure 
                  A tavola
ai miei colleghi affettuosi:  
                  Ricevevo
in cambio pacche e manate scherzose 
                  E sgabelli
e robuste seggiolate di sincera amicizia 
                  Sulla mia
schiena di ferro che meditava vendetta. 
                  Ma non
per questo diventavo ogni giorno più saggio 
                  Mentre
assorto osservavo l'arco 
                  E la frecce
e le aste di bronzo accecante 
                  E assetato
di sangue scorrevole, 
                  Appoggiate
sui muri della mia casa. 
                  Oh, non
andate via, ombre di cui ho dimenticato 
                  Perfino
il nome, io chiedo poco  
                  All'angolo
della strada, non lasciatemi solo 
                  Povero
me che vendo accendini e sigarette 
                  E fazzoletti
di carta a pacchetti. 
                  Ma ora mi
appresto al congedo,  
                  Ascolto
la voce dei merli più infreddoliti, 
                  E accumulo
appunti senza memoria.  
                  Prima che
ci lasciamo,  
                  Lasciate
che vi dica ancora una cosa:  
                  La pelle
dei sogni distesa ad asciugare  
                  Sul comodino,
rivestitela con cura ogni sera, 
                  Lodate
la Morte che ogni mattina  
                  Vi incontra
e vi saluta, 
                  E ascoltate
della buona musica, 
                  Ma non
siate troppo esigenti  
                  In cucina
e in camera da letto.  
                  Ricordate
che Maometto e San Pietro 
                  Portano
ogni giorno torme di pecore,  
                  Di agnelli
bianchi, e mucche e cavalli innocenti  
                  Ai fumanti
mattatoi di Brescia,  
                  Mentre
la nonna prepara la carne 
                  E i dolci
e trascura Beniamino  
                  A favore
del penultimo e del primo.  
                  Siate buoni
e generosi,  
                  Ma affilate
e tenete basso e pronto 
                  Il vostro
corno di rinoceronte  
                  Contro
il gatto e la volpe,  
                  E non
dimenticate
mai di carezzarmi  
                  All'angolo
di strada, non lasciatemi solo 
                  Povero
me che vendo accendini e sigarette 
                  E fazzoletti
di carta a pacchetti. 
                  I 
                  Tra le creature
che sulla terra camminano 
                  Ve ne sono
alcune che, misere, 
                  Amano solo
quel che vorrebbero fosse 
                  L'amato
o l'amata. Come scimmie che cerchino 
                  Cibo negli
inganni riflessi da specchi, 
                  Così
esse si offrono al sorriso pietoso del saggio. 
                  Io, invece,
amai la tua semplice esistenza 
                  Accanto
a me, e ora la canto. 
                  Eppure 
                  Non potrebbe
mai arrogarsi 
                  Del nome
desiderato di uomo sapiente 
                  Colui che
in amore non sappia 
                  Mai cadere
in inganni 
                  Nuovi,
vari e mutevoli 
                  Ogni giorno
nuovo che passi. 
                  Per questo
io non mi pento 
                  Di quello
che ho fatto, dell'affetto  
                  Pieno e
delicato che ancora ti porto, 
                  Delle lagrime
amorose spuntate 
                  Senza riposo
ogni quattro notti. 
                  Ma fu quando
sopravvenne il timore 
                  Amaro e
inatteso che l'amore morisse,  
                  Fu allora,
amici, che io imparai a odiare  
                  In lei
l'inganno e in me il disinganno:  
                  Io vidi
me stesso come un fantasma 
                  Futuro
e non più sofferente, 
                  Come un
cieco veggente 
                  Mi vidi
e mi temetti e mi odiai  
                  Troppo
saggio e dimentico. 
                  Così,
alunno del cielo ingannevole 
                  E della
perdita amara, 
                  Io
dimenticai,
come al mattino 
                  I portinai,
le segretarie o i banchieri  
                  Dimenticano
i sogni che più dolci o affannosi 
                  Hanno
popolato
la loro notte infinita.  
                  Spettinati
e seduti sui solidi letti, 
                  Sulla riva
del giorno sonoro   
                  Essi li
vedono svanire come massi  
                  Nell'acqua
fangosa del risveglio  
                  Ricco di
impegni e promesse. 
                  Così
fu un breve sogno quel tempo 
                  In cui
io desiderai una vita intera 
                  In tua
compagnia, e disegnai 
                  Progetti
e promesse. Tutto apparve 
                  Facile
come facili sono solo gli inganni 
                  Perché
un attimo era filato   
                  Liscio
come l'olio, e tu mi avevi amato. 
                  Ma non
fu che la gratificazione di un momento, 
                  Una promessa
che non tenne, 
                  Un'esca
gettata a pescare 
                  Tra tante
debolezze. 
                  E quanta
e quale fu l'oscurità 
                  Che, calata
sullo sguardo, 
                  Ne interruppe
il raggio, 
                  Io non
lo saprei ancora oggi 
                  Ricordare.
Io non saprei dire come 
                  Si
allontanò
da me il messaggio 
                  Affettuoso,
il fantasma 
                  desiderato
e bello. 
                  E nemmeno
conosco il nome 
                  Dei venti
che ne dispersero 
                  L'odore
per la pianura. 
                  Ho cercato
una traccia per giorni 
                  E non ho
trovato nulla, chiedendo 
                  A me stesso
e ai passanti impazienti 
                  Se fu
autentico
il dolore, e grande 
                  O breve
come il sorso 
                  D'acqua
di un bicchiere, 
                  Sufficiente
ad innaffiare 
                  I fiori
del giardino 
                  Della tua
casa. 
                  II 
                  Non ti ho
insegnato 
                  Forse a
mentire 
                  Soprattutto
a te stesso?  
                  Sii tuo
alleato, immaginati 
                  Cavalcatore
di tutte le glorie 
                  Più
infantili, delle fantasie 
                  Più
furiose, inseguito 
                  Da un
esercito
di trombe 
                  Dorate,
che celebrino 
                  A tutta
forza le tue lodi  
                  Da un tempo
infinito.  
                  Sognati
senza vergogna 
                  Un Napoleone,
sebbene tu sia 
                  Imbottegato
tra i libri di conti 
                  Le parcelle
e i registri 
                  E sbeffeggia
le Parche. 
                  Non affannarti
a fissare 
                  Ogni ridicolo
ricordo, 
                  Che punteggi
la tua 
                  Dimenticabile
esistenza, 
                  Compilando
diari e fogliacci 
                  Di carta
che saggiamente 
                  Nessuno
verrà mai a sbirciare. 
                  La vita
non va ricordata, 
                  Piuttosto
dimenticata 
                  Accuratamente
e in ogni dettaglio. 
                  Questo
ti consiglia 
                  Il pensiero
incoronato dei saggi 
                  Barbuti,
quando alla sera 
                  Lasciano
marcire i ricordi 
                  Più
amari e più vaghi, 
                  Attorno
al braciere,  
                  E godono
piuttosto 
                  L'amichevole
luce  
                  Dello stupido
sonno, 
                  Il gradito
carcere 
                  Delle
palpebre
immemori. 
                  Non rimuginare
per ore 
                  Sugli impegni
irrisolti: 
                  Parcheggia
piuttosto 
                  La mente
in luoghi 
                  A te ignoti,
finora. 
                  Taglia
l'erba e le siepi 
                  Che ti
impediscono il volo 
                  Sopra il
tetto e i comignoli,   
                  Gioca con
le mani 
                  Nell'aria,
mostra 
                  Orgoglioso
e impunito 
                  Il tuo
ultimo acquisto 
                  Quando
al mattino, attraversando 
                  Il mercato,
incontri gli amici, 
                  Offri il
tuo sguardo sereno 
                  All'eterna
invidia dei venti 
                  E racconta
i tuoi desideri 
                  Più
sciocchi e più vergognosi 
                  A ogni
albero che crebbe 
                  Fecondato
di pioggia  
                  Nell'ampia
di messi pianura del Nord. 
                  Poi, non
dimenticarti di me: 
                  Portami
un cappotto 
                  E scarpe
di buona tomaia 
                  E un cappello
di lana 
                  D'Inghilterra,
e stracci 
                  Tra i
più
raffinati che trovi 
                  E augurami
la buona notte. 
                  Io che
ogni notte dormo 
                  Sugli
interminabili 
                  Marciapiedi
della città, 
                  Accarezzato
dalla luce dei lampioni, 
                  Sotto il
portone della tua casa. 
                  29 luglio
2001 
                   
                  IV 
                  Non vi è
nulla di peggio 
                  Che un
pomeriggio buttato 
                  Tra il
fango e la sabbia 
                  Tra la
timidezza e l'arroganza 
                  del
disinganno
e del compiacimento. 
                  Così
passeggiavo sui marciapiedi, 
                  Seguivo
solitario 
                  Le orme
dei poveri nella neve, 
                  Affaccendato
in una città lontana 
                  Dispersa
oltre le montagne, 
                  Tra uomini
e paesi sconosciuti, 
                  Meditando
sui loro nasi arrossati, 
                  Le pareti
calde e vestite di barbaro legno 
                  E gli
avventori
ai tavolini accanto. 
                  Quando sei
solo e circondato da gente 
                  Che nulla
sa di Roberto o Lorenzo 
                  Spesso
riassapori i peggiori ricordi, 
                  Li centellini
contraendo i muscoli 
                  Tesi tra
mascella e mandibola 
                  E ti vesti
di loro, della loro tristezza 
                  E del loro
disfacimento come di una maschera 
                  Che ti
dia un tono, un senso, 
                  Una parte.
Di solito non fumi 
                  Ma puoi
usare anche lo sfumacchiare di sigarette 
                  Arroganti
come segretarie straniere 
                  Che parlino
pettegole un inglese perfetto 
                  Alla
reception. 
                  Così
puoi scopriti ospite nuovo a te stesso. 
                  E possono
essere strani i messaggi della memoria.  
                  Alcuni
calano improvvisi e neri come la notte, 
                  Poi ti
scaldano come un mantello  
                  Steso da
un passante pietoso sulle tue spalle.  
                  Ricordai
allora una notte  
                  Che credevo
dimenticata per sempre. 
                  Essa mi
lanciò una freccia acuta sulla schiena, 
                  Scese
silenziosa
e rapida come un Apollo. 
                  Trasalendo
lasciai le usate faccende, 
                  E le
questioni
e le barbare guerre, 
                  Ed ogni
altra carta, 
                  Che mi
occupava in quel paese lontano, 
                  E mi fermai.
                  
                  Fermai il
corso eterno delle cose 
                  E pensai
a te, e a quell'altro 
                  Me stesso,
e vidi le ombre di voi due, 
                  Te e me
stesso, giovani innocenti 
                  Ma coperti
di sangue come scampati a un massacro,  
                  Venuti
a discorrere con me,  
                  Intorno
al mio cuore. 
                  Signore,
io ti chiedo aiuto e perdono! 
                  Quale
tristezza
non incontrai nei loro visi! 
                  La faccia
di lei soprattutto, 
                  Era piena
di lagrime e di riso amaro, 
                  Tra i suoi
occhi si piegava l'abbandono. 
                  Come vorrei
dirla tutta, quella immagine, 
                  E amaramente
piangerla, ma non lo saprei. 
                  E io, che
ero lì, che ero presente e vivo, 
                  E non ombra,
mi rimproverai, 
                  E rimproverai
quell'ombra passata 
                  Quel me
stesso che non seppe amarla. 
                  Che importava
se ancora poco ti conoscevo? 
                  Che
importavano
i mille e mille 
                  Altri
ostacoli
e le giustificazioni? 
                  Avrei dovuto
semplicemente amarti, 
                  E sottrarre
al caso, ai molteplici calcoli 
                  E premure
e stanchezze, 
                  L'amore.
                  
                  Io non sapevo
più dove eravamo. 
                  Mi pareva
di percorrere il ponte 
                  Di una
nave in tempesta, e temevo 
                  L'ingannevole
amico che, inevitabile come il destino, 
                  Mi avrebbe
offerto effimero appoggio 
                  Per poi
gettarmi fuoribordo. 
                  Raccolsi
allora da terra le mie cose 
                  E abbracciai
l'ombra di lei passata  
                  E la mia,
che misteriosamente piangeva 
                  Di noi
tre astanti la più ignorante 
                  Delle
circostanze
di quello strano incontro, 
                  L'unica
che non aveva bevuto sangue e latte e miele. 
                  Mi allungai,
ma il mio braccio 
                  Si perse
nell'aria grave e morta 
                  Come un
grande uccello accecato. 
                  Come un
commerciante dubbioso 
                  Tra due
decisioni, 
                  Ancora
oggi mi chiedo  
                  Chi di
loro due, chi di noi, 
                  Meritasse
più consolazione. 
                  Poiché
io non conoscevo quale fosse 
                  Il maggior
dolore: se non essere 
                  Amati,
o non amare. 
                  V 
                  Poesie
giapponesi, ovvero messaggi al telefonino 
                  Ti ho incontrato
attraversando il ponte dei sogni, 
                  Ma dall'altra
parte del fiume appassivano i gigli. 
                  La luna
pallida d'agosto illumina  
                  Tutti gli
angoli della mia casa, 
                  Ma io non
sono che un cieco che cammina  
                  Tastando
la tavola, le sedie, i muri. 
                  Sullo schermo
si agitano le ombre colorate e i suoni pettegoli, 
                  Ma tace
la tua voce all'altro capo del telefono, stasera. 
                  Perfino
se tu fossi un maligno genio  
                  O qualsiasi
altra creatura infernale, 
                  Io sceglierei
di essere un'anima dannata,  
                  Che
preferisca
volarti intorno eternamente, 
                  Piuttosto
che oltrepassare le porte del cielo. 
                  Uscito di
casa, la luna è una boccia nel fioco azzurro 
                  Della sera,
che mi ricorda i vicoli solitari  
                  Dove tu
la contemplavi in mia compagnia 
                  Promettendomi
di popolare la mia casa. 
                  Dal sentiero
delle montagne, 
                  Vedo le
luci brillare in fondo alla valle. 
                  Esse sono
i miei anni solitari,  
                  Durante
i quali non ho mai rimpianto di averti amato. 
                  I miei passi
che scendono i sentieri 
                  Sono rapidi
come gli anni, i pensieri, gli amori. 
                  Il sole
illumina le piante del mio giardino. 
                  Perché
invidiare Mercurio: 
                  Il pianeta
che più da vicino lo gode? 
                  Ogni minuto
che passa 
                  Di questa
mia tenue 
                  E piccola
vita 
                  Si nutre
della consolazione 
                  Che un
giorno ti amai 
                  Davanti
alla porta della tua casa 
                  Hai posato
vasi di ortensie. 
                  Il vicino
ti incontra che li innaffi 
                  Nel
pianerottolo,
osservandoti 
                  Mentre
scende le scale. 
                  Perché
mi hai chiamato Sole del tuo giorno 
                  Se già
coloravi di rosso i raggi 
                  Che ti
regalavo? Era il tramonto, 
                  E io non
lo sapevo.  
  
                  Traduzione
(dall’inglese): 
                  Perfino
una felicità lunga una intera vita  
                  Non è
altro che una tazza di sake; 
                  Un'intera
esistenza di quarantanove anni è già svanita in un sogno;
                  
                  Io non
so cosa sia la vita, né la morte. 
                  Anno dopo
anno, nient'altro che un'ombra.  
                  Ma ora
mi lascio alle spalle i Superi e gli Inferi 
                  E mi godo
la luce della Luna che sorge, 
                  Libero
dalle nuvole degli affetti terreni. 
                  Uesugi Kenshin
(1530-1578), daimio (grande feudatario giapponese). 
  
                  VI  
                  Se un dio
del passato 
                  Mi apparisse
improvviso 
                  Dal profondo
del fuoco, 
                  O dai reami
del tempo, 
                  O dall’ombra
di Dio, 
                  E mi
proponesse
di affidare  
                  Ogni mio
più caro ricordo 
                  E tutte
le cose che ho nella mente  
                  E quelle
che ho faticosamente imparato 
                  In anni
di studio affaticato e costante 
                  Alla
dimenticanza,
per in cambio ottenere 
                  Illimitata
e brunita bellezza, fascino 
                  Assoluto,
oscura e zingaresca superbia, 
                  Statuaria
improntitudine, nobiltà senza vergogna, 
                  Odore
irresistibile,
splendidi occhi  
                  Di cavallo
e pelle luminosa, 
                  E un mento
privo di umiltà, 
                  E una voce
sonora e mai macchiata 
                  Da esitazioni
e incrinature, 
                  Ebbene,
io non esiterei un solo istante. 
  
                  VI 
                  Sono morti
da tempo 
                  tutti i
poeti che hanno popolato di musica 
                  I miei
anni migliori. Non mi rimane  
                  Che imparare
a cantare. 
                  VII 
                  Ti ho comprato
questi fiori 
                  Perché
ti amo. 
                  Amore mi
morde il fianco 
                  Come un
cane rabbioso,  
                  E io
goffamente
imbarazzato 
                  Mi tampono
la ferita 
                  Con la
mano tutto il giorno. 
                  Il fioraio,
il ragazzo  
                  Del negozio
e la donna 
                  Delle pulizie
mi guardano 
                  Stupiti,
domandandosi 
                  Dubbiosi
se sia scelta più saggia 
                  Compatirmi
o invidiarmi. 
                  E dalla
strada mi indicano 
                  E mi
osservano
i passanti 
                  E il loro
sguardo fino a me 
                  Danza tra
i fiori e le ginestre 
                  Attraverso
le vetrine 
                  E gli addobbi
di Natale. 
                  Essi mi
indicano 
                  Ai loro
figlioletti 
                  Che tengono
per mano 
                  E raccontano
loro 
                  Commossi
e inteneriti 
                  Cosa sia
e cosa  
                  Debbano
attendersi 
                  Di buono
e di cattivo 
                  Da ogni
tenero affetto 
                  Da ogni
futuro amore. 
                  La camicia
bianca 
                  Che
stamattina
mi hai comprato 
                  Arrossisce
di sangue 
                  Ogni giorno
cha passa, 
                  Ma il tenero
giornalaio 
                  Il compratore
di notizie 
                  E l’amico
incontrato 
                  Per caso
all’angolo 
                  Della strada
tante volte 
                  Attraversata
                  
                  Si
complimentano
felici 
                  E innocenti
                  
                  E non
intimoriti 
                  Dal sangue
che si espande 
                  Sui bianchi
e stirati lini. 
                  Così
i cani, compagni 
                  Dell’uomo
e della donna 
                  Abbaiano
a me 
                  Che sono
innamorato, 
                  E mi salutano
i fruscii 
                  Delle foglie
del Platano 
                  Lungo la
riva del fiume 
                  Che scorre
placido al limitare  
                  Della
città
degli uomini. 
                  IX 
                  Quando il
tuo cuore ti chiama 
                  E tu non
sai cosa rispondere, 
                  Allora
ricordati di me  
                  E non
dimenticarmi 
                  Io che
ti insegnai nel passato 
                  Che sono
quindici gli anni 
                  Che è
giusto assegnare 
                  Ai sogni
migliori, 
                  Mentre
i primi e gli ultimi 
                  Dieci giorni
che attorniano 
                  La luna
sono il tempo 
                  Che invece
riserverai 
                  Diligente
ed astuto 
                  Ai deliri
e alle fantasie 
                  Più
sfrenate.