Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Mariano Bàino: Pinocchio
di Antonio Spagnuolo



Mariano Bàino, Pinocchio (moviole)
Ed. Piero Manni, 2000, pagg.72, L.20.000

“C’è il problema heideggeriano dell’Essere nascosto-svelato e dell’arte come verità ad esso relativa….
Poi c’è la simulazione secondo Baudrillard…” scrive Francesco Legnetti nella sua un po’ tortuosa prefazione,
ed involontariamente mi avvia ad una lettura secondo il taglio da me costantemente preferito e perseguito:
il dicibile non detto dell’onirico, ed il pronunciato non dicibile del preconscio.

“Oggi non so leggere, mi rotolo
giù da cime alfabetiche,
fra suoni
di pifferi, colpi di grancassa
sorti in fondo
a una lunghissima strada
traversa
che mi tuffa in una piazza,
a un luogo presso il mare…” (pag. 12)
 
Il primo impulso sgomina lo stregone con il tam tam del mistero,  bistrattato e reso invisibile dalla smania del rivivere,
del diventare per un attimo il delirio accurato delle negazioni, degli assurdi, del fluttuante, ove la musica, in una vaga
esattezza di ritmi, compone i colori disparati in un arcobaleno di sconnessioni e ricostruzioni. Come se fosse davvero
la conclusione di una storiella da giornalino, da bravo presentatore Mariano chiosa la ricomparsa dei burattini
in mezzo a maschere del teatro popolare ad evidenziare il gusto dello svago e la leggerezza comunicativa, tranquillamente
proposta all’ombra del dettato personale.
A volte la mano insiste anche su sfumature ove gli effetti  trasgressivi feriscono, e corrono per una strana velocità
di linguaggio, e assumono il senso del sospetto esistenziale, anche laddove il burattino, per una questione etica o estetica,
descrive le tracce del tempo, o del tempo stesso burla il correre sospetto delle lancette.
Già dalla presentazione puntuale e rumorosa dei personaggi-maschere (in latino personaret ha tutto un suo programma!)
si avverte il gioco di Bàino totalmente teso a coinvolgerci in un scintillio di sotterfugi incuneati all’altalenare dei fuochi
d’artificio dialettali, nella immersione delle follie del mondo, nella frantumazione del sogno ad occhi aperti, per staccare
l’illusione dall’improbabile, per dischiudere il sipario che ci separa “inconsciamente” dal quotidiano
Ogni maschera si presenta e viene presentata con il ripetersi della sottolineatura “italiano” : maschera italiana, burattino
italiano, burattinaio italiano, coro italiano, orologio a pendolo italiano, silenzio italiano, quasi a volere a tutti i costi far intendere
che qui si gioca in casa nostra e  la recita ci appartiene fin dentro al sangue.
Ma i vari personaggi sono molto titubanti del ruolo, e dichiarano di volta in volta “e il mio è il ruolo principale” , prima
Arlecchino, poi Mangiafuoco, e infine lo stesso Pinocchio, chiedendosi timorosi “ma chissà se sono abbastanza plateale”.
Si, plateale, proprio perché l’autore individua nella coralità l’unico mezzo adatto a scompigliare il fantasmagorico ed a ricomporre
il racconto dentro la contemporaneità.
Testimoniano le pagine di intermezzo in prosa, chiave del simmetrico/asimmetrico che ci circonda, dimensione nella quale Pinocchio
arranca per quella fatica dovuta al sogno-realtà : “c’era una volta…un re? direte voi no il fatto che i figli da grandi prendevano
il cappello & se ne andavano  beh tempi diversi ché i ragazzi di oggi occorrerà anche la pensione dei padri, se questi riusciranno
ad ottenerla”, “& insomma gli fanno credere che sia cosa facile accedere ai finanziamenti regionali per l’imprenditoria
giovanile & invece finisce in una selva selvaggia braccato dalla coppia maramaldesca”,  “stop il resto è alla rinfusa cenni
a un’insonnia non vinta dall’azione dello zolpidem…deriso dai poveri eventi del nostro reale & a un io che non vuole vedere
il finale di nessuna partita & invece dice vorrei fare la mia partita pulita solitaria immemore e dimenticarmi di tutto abbandonare
questa terra che è troppo carica…”.
Ecco che questa poesia giunge al punto in cui mena l’indistinto della rivisitazione onirica: un parlare breve e fragoroso,
ove la confusione degli oggetti indefinibili conduce alla rielaborazione dell’oggetto stesso, per il balbettare della parola e per una sorta
di rivendicazione fisica , più volte inframmezzato da segni di parentesi senza alcun contenuto, atte a distruggere ancora la serialità
delle parole, nel perenne tentativo che la “afasia” incunea dentro il nostro inconscio. L’avventura umana di un Pinocchio qualunque
rigenera quelle fibre appariscenti del mutamento scenico, fuori dall’ansia intesa come patologia e dentro l’ansia intesa quale forza
erosiva della favola : “dove il mondo scorre ( ) elettronico leggero a spandersi/ per linee interservizio ( ) sei fra gli angeli ( )
del dire brevi frasi, che ridonano/ il facile alla mente ( ) e le tue lune ( ) tutte le lune che domandasti…” .    


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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