Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Ricordo di Armando Patti
a cura della redazione



A. Biobibliografia
B. Antologia dei testi
C. Per Armando Patti (Plinio Perilli, Luisa Trenta Musso)
 

1. Biobliografia
Armando Patti nasce a Catania il 28 ottobre 1914.
Medico, laureato anche in filosofia, si è occupato di poesia fin dal 1970. Negli anni ottanta si trasferisce a Roma.
Suoi testi poetici sono: Nelle ore mobili (Bologna,1972), Avanguard’aria (Roma,1977), Terra d’uomo (Quarto D’Altino,1978), Un punto fuori pagina (Manduria,1983), L’ora intemporanea (Firenze,1990), Il gaio corpo (Roma,1995), Poemetti ipostatici (Roma,1996), Un orologio vuoto (Valverde,1998), The Eye Inside The Wind – Selected Poems Of Armando Patti (Gradiva Pubblications – New York,1999).
Ha collaborato a vari giornali e riviste tra cui La fiera letteraria, Le ragioni critiche, Sintesi, Ausonia, Lunarionuovo, Forum italicum, Poesia, La Sicilia.
Si spegne a Roma  il 15 marzo 1997.
 

B. Antologia dei testi

  1. Telescena
  2. L'aereo alla stazione ferroviaria
  3. Supina, occhi socchiusi, appena
  4. Diranno strana la cosa
  5. Temevo di strusciarli. Che mi entrassero lisci
 

1. Telescena

Mi spegnerò l’immagine l’incastro
                                                          scena-mente
i grilli di silenzi  l’albanebbia
                                                 a sera
terra-foglie    terra-soffi
la luce dei comignoli di fumo
                                               l’ora
                                               l’orlo
una finestra fuori accesa a notte
                                             di  Chopin
che strozza
                  la tele la mente
                                             il gallo del mattino.

2. L'aereo alla stazione ferroviaria

Mancava pure questo muronulla
a precipizio su,
questo rombo di buio nella Notte bassa a
nuvole sul mare accanto.
Di quelle notti a notte
che il silenzio stesso
si raggomitola da qualche parte.
Mancava proprio il colpo d’ala
(nera a nero)
alla mia corsa salsa di pensieri dove
non so se
parta o arrivi,
in un intrico di binari
                                    interminabili
oltre un rumore-fu.

3. Supina, occhi socchiusi, appena

Supina, occhi socchiusi, appena
accesa di magnesi dentro,
solo carnale di memorie algali,
adolesceva già Biogea
a una penombra,
a un tondo quando
in cui sentì alla pelle
una verde prurigine. Erano erbe.

Beveva luce e sensi
minuto-luce per minuto
     e le montavano silenzi a tratti, crepiti,
fitoansie,
tutto un fondale di presentimenti notti
voglie
di polpa nuova.

Non so quanti fotoni vorticarono,
da quanti antea, quanta
                                          attimità
negli orli d’un archetipo di cerchi scesi
a incellularsi, a riciclarsi,
da un foro o globulo
di lontananze
e cosmici crepuscoli.

Le lune modulavano
ellissi sotterranee, ombrate epifanie.
Sentiva avvolgersi turgori Bio,
incontenibili contorni, aprirsi
a bocca assorta
ai giri di vertigine di anelli,
a compitare già le prime sillabe
del libro (sicut
erat intus),
farfugliando nel vento
                                      ampolle     pollini.

Un giorno di passaggio in piena nelle vene,
sorpresasi in flagranza
di nude labbra schiuse,
le ricoprì con quella foglia orlata
di malizia
che ventilando ammicca.

4. Diranno strana la cosa

Diranno strana la cosa
                         la mano.
Eppure è chiaro
nel buio della mente che la cosa
già presa del suo nome
e senso e peso
della materia interna,
questa corposa cosa ora
può prenderci la mano. Sì,
                            la mano.
Adesso sta balzandoci dai segni
immobili cartacee ombre
a volgerci le dita.

Carni
innumerevoli di strette
    - ignoti identikit - .

                             Carni
ipocrite amorose sudorose.
Transiti
nel nodo appassionato labile
                                       del palmo.

(la mano)

Un tema tanto
affusolato nella immagine
si può additarlo solo
a fior di pelle, astratto
dal senso tattile che
penetra
nell’anima
come un’ossosa cosa.
Un oggettivo dito nella piaga.

Pure nei limiti
del suo profilo nella mente
ti punta addosso tutta
l’identità  indicibile
del nome più opponente
                                        l’indice.
 

Ti sposti, dato il bando,
un po’ nel nome. Tasti
l’amabile virtù che stat in
                                           medio.

La fede brilla accanto, al
                                        l’anulare.
Un segno nella carne
non sempre d’oro.

Sorvoli serio
                      il pollice.
Temi di rimanere secco
sotto il suo versus.
 

In extremis,
timido ai margini
                            il mignolo.
Come se figlio
di dito ignoto
e lo chiamassero così, con un
nomignolo.

(il dito)

5. Temevo di strusciarli. Che mi entrassero lisci

Temevo di strusciarli. Che mi entrassero lisci
così com’erano.
Con tutto
un vuoto un quid un oltre        di cose oltre le
cose.     Con l’apparenza tenuta su nelle moven-
ze equoree da un tono lucidoso e teso       come
fossero ingrucciati d’osso misterioso. E non ave-
vano che un perno d’aria       soffiata  da lontani
pleniluni.

Abiti disabitati andavano a frotte sotto una luna
novembrina      ferma alle nove del mattino.
Non era un giorno solito. Né forse giorno.
Turbava la filata fatuità      l’ovatta di silenzi    i
gesti dentro un modulo fuori modulo  -  fuori
habitus -       i trasparsi gessetti . Quella impassi-
bile aura nello sfiorarmi senza d’un che di mera- viglia alla stranezza tattile del mio volto.
Non lo vedevano?
O forse?
Palpavo senza  requie il mio contorno sdrucciolo alla fronte              il cavo nominale della carne.
Compitavo con le dita le sillabe afasiche  di iden-
tità.
Possibile non s’accorgessero?
?...
Questo il segno vero forse       la smorfia insoluta
(soluta sintesi?)      l’ellissi di silenzio in uncina-
to sé.
E basta tale curva – quasi idea -     per rivoltarci
in double face  con le  impunture a  una  deriva  di
globuli-nomi.          Con un mollusco nelle mani
        quella luna.
Equivoca          come un volto.

Qua      che non lo sai     da quale parte sgorghi
l’arco la sua orbita      su che convessa polvere
s’aggrondi  il tempo  intemporale  nel  suo giro
ancipite.        Su che sabbia su che aria. Su che
volta arroti gli occhi  (in sopra           in sotto?)
        quale bandolo ti stringa nelle mani - coda
accesa di cometa  - .
Che lunghissima Arianna.

Qua             nelle giravolte di questa creta che ci
modellò le immagini di soffio           figure traso-
gnate  nelle curve  d’insoluti passi     e non lo sai
da che angolo stia sillabandoti         da che talloni
d’osso o orme che oltrepassano a ritroso l’attimo
che avanzi.
Avanzi dove?

Nelle ‘omegali’ origini  (venata trasparenza di
parole in cui s’appannano le labbra)         e segui
        in controsenso segui l’Est      tenendo stretto
il senso del cordone             il lungo involucro  di
sensi      per non perdere...
Per finire dove tutti.
Per trovare il punto fermo              il punto-buco
      dopo il quale forse è un
                                           buco-punto.

Camminare fra passi.
Persone-passi.
O cose-passi
se le cose come pare avanzano nello smottamen-
to di tutto verso altro       altro tutto.
Le cose che ci passano una dopo l’altra         una
dentro l’altra
dentro tutte le figure della mente         apparse  e
sparse come niente.

Equilibrarsi a una sequenza di segni     metrono-
mi di una distesa senza termine bifronte.

Ancora passi dietro.
Anonimi di folla solitaria
contorni mutilati           che inseguono arrancano
per tenersi nel cerchio della carne.
O del suo nome.
O delle immagini che nascono già innanzi
per un identico stampo.
Passi senza pelle. Passi senza tempo.

                      Non posso scrollare me-passi.
                      Queste presenze assenti
                      su una medesima orma.
                      Che può essere un granello
                                                dentro l’occhio.
                        O una goccia dentro l’occhio.
O un vento dentro l’occhio.
O l’occhio dentro il vento.

Fuori di questo globo già.
E non lo sai su quale mondo questo primo uomo
stia aprendosi in parentesi di intruso Adamo
su quale crosta o fantasia ci posi questa scena su
Selene.
E come tanta luna sbandi qui       nei pochi pollici
di scandalo          nella tua sera illune.          In una
sera in cui rincorri              su d’un altro emisfero
- come sempre -              ansiosi andirivieni. Da un
teleplenilunio a un cielo nero.

Il primo uomo là trasogna
      infanti passi a sbalzi
scarabocchiando i milligrammi
      della sua goffa identità
           nell’aria polvere.
Nel codicillo d’un lontano inizio
           raggranellando sassi
 pietrisco d’ombra al suo futuro
               andando oltre
        oltre la notte l’occhio
   - persi infiniti l’abitacolo e i compagni -
                        oltre riverbero
                   della pupilla accesa
                        così  lontano
                           e piccolo
    da divenire l’ultimo cerchietto luminoso
              o l’assoluto tondo numerale.

A chi-tu      l’ascolto della mano colma delle
vene     la voce    il fiato carnicino che ti sillabi
alle labbra?
Sai ricadrebbe inutile il cerchio del tuo gesto se
pure adesso che sta già sentendosi (pare) dall’al-
to dei tuoi globuli un acuto condilo di rumore
     anche ora     non si volge un chi-nessuno.
Anche a bussare a uno a uno ai volti più vicini e
raccostarli al punto di riverbero è certo       come
questo-che mormoroso            che chiunque-chi
rimarrebbe appena dondolato entro la ellisse
delle ciglia impassibili.

Nessuno a udire
l’ansa riva        il respiro all’orizzonte delle tem-
pie stese. Le nascite che si frastagliano indistinte
a seppellirsi nella sabbia.  I  chiacchiericci di
silenzio  d’un assurdo uno     in bilico di moti
ondosi.
Non odono questo ‘odo’.
Questo frastorno da non sai vicino o lontano
         o struscio       o rivolo nascosto oltre un
fogliame pensieroso.
Ma clami      chi-nessuno.
Un’eco muta         in argine di buio     su questa
pelle anima alla deriva  di parole che non sai che
senso trovino alla foce.

C. Per Armando Patti (Andrea Zanzotto)

SULLA POESIA DI  ARMANDO PATTI

“Chi è vero medico” – motteggiava anticamente Galeno  - “è sempre anche filosofo”. E noi andiamo ora a parlare di un medico/ poeta raziocinante e saggio, incarnato ma sublimato in versi. “Armando Patti muove da un’attenzione all’elemento materico in cui le strutture fisiche, il corpo, vengono messe in rilievo nelle loro grandiose e irritanti  paradossalità, su una linea sperimentale, ma esiste in questo poeta anche un’opposta tensione che lo spinge a una meditazione in cui la logica scorre spesso verso l’analogia. E in entrambe le situazioni con risultati talvolta sorprendenti”.
Questo pieno e franco riconoscimento da parte di Andrea Zanzotto premia e segnala, in Armando Patti, una delle voci più originali, forbite e lucide degli ultimi due decenni. Basterebbe ricordare raccolte come  Terra d’uomo (’78), Un punto fuori pagina (’83), L’ora intemporanea (’90), e soprattutto Il gaio corpo (’95), da cui citiamo, poematico e neoilluminista repertorio, atlante anatomico, e, diremmo quasi, briosa radiografia culturale, psicanalizzata ecografia mentale, del nostro esimio ma deperibile contenitore, collettore o motore, d’anima e di vita...Anche l’ultimo, prezioso e metafisico esito dei Poemetti ipostatici (’96) conferma e suggella una parabola intellettuale e un lirismo affidati e risolti da una finissima, lussureggiante “immaginazione linguistica” – sottolinea Giacinto Spagnoletti – “applicata a una serie di meditazioni tra stupite e azzardate”.
Plinio Perilli

Sulla scala dell’esistenza che congiunge cieli e abissi, stupori e sgomenti si inerpica – in un’audace e suggestiva irregolarità – la poesia di Armando Patti.
Forte della sua esperienza di medico, il poeta solleva a exemplum  del disagio esistenziale il corpo dell’uomo, interpretandone il codice fatuo dei singoli organi per un sistema metaforico che ripercorre i punti chiave dell’io. Ciò che è materia e intelletto, parola e afasia. Punti fuori-dentro  del  “Gaio corpo”.
Voci-simboli delle genetica esistenziale. Il tono è ironico, ai limiti di un umorismo che si fa leggenda e parodia dell’uomo. Un distessere per nodi e per fili. Per segni e parole. Dentro e fuori la metafora.
Patti non umilia la parola poetica a spiegare qualcosa. Bensì la chiama a vivere per qualcosa e in qualcosa. “A origliare    affiorate distanze./Il polso buio del tuo cielo d’Essere”.
Luisa Trenta Musso 


Indice recensioni e note critiche
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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Emilio Piccolo e/o Antonio Spagnuolo