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Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Alcune domande a «l’immaginazione»
di Marco Giovenale


Alcune domande a «l’immaginazione»
intorno alla VII edizione di “Ricercare”

(Reggio Emilia, 28/30 maggio 1999)

L’ermeneutica materialistica vuole praticare compiutamente il dialogo oggi per realizzarlo compiutamente domani; ma può raggiungere tale obbiettivo – che è quello stesso di una democrazia compiuta – solo praticando, contemporaneamente, la critica delle ideologie che gli si oppongono e assumendo dunque anche forme conflittuali. Essa punta sulla contraddizione perché sa che non esiste tradizione che non sia anche sede di conflitti e di barbarie; ma propone anche la soluzione della contraddizione e mira all’intesa di tutti gli uomini.

R.Luperini, Il dialogo e il conflitto (Laterza, Roma-Bari 1999, pp.45-46).

1.

L’intero numero 158 de «l’immaginazione» (giugno 1999) è dedicato all’edizione ’99 – la settima – di Ricercare, «laboratorio di nuove scritture».

Come recita il corsivo d’introduzione, «la formula è ormai collaudata: diciassette autori (4 di poesia, tredici di narrativa) hanno presentato i loro testi e si sono sottoposti immediatamente al giudizio dei numerosi critici presenti. Anche quest’anno “l’immaginazione” pubblica […] le parti iniziali dei testi letti al Convegno dagli stessi autori e, di seguito, interventi di bilancio di Renato Barilli, Daniela Brogi, Margherita Ganeri, Nicola Signorile».

In questa sede, tenendo presenti gli scritti degli ultimi tre studiosi appena nominati, si intende porre alla Redazione della rivista e agli stessi studiosi una serie di dieci domande finalizzate a chiarire meglio il nodo (autori)-critica-editoria-(lettori), che negli ultimi anni occupa fra l’altro un considerevole spazio di discussione, tanto nelle sedi accademiche di indagine “sul letterario” quanto in sedi meno istituzionali, e  in riviste e dibattiti.

Si vedrà infine – e si anticipa qui – che nella formula “(autori)-critica-editoria-(lettori)”, le parentesi non sono del tutto casuali, e segnalano il timore – da parte di chi scrive – che i termini primari del ciclo vitale del testo letterario vadano progressivamente sbiadendo, nel panorama del conflitto tra critica e editoria – ormai quasi del tutto risolto in favore della seconda.

 
 

2.

Veniamo dunque all’intervento di Daniela Brogi, intitolato “Crisi della critica o crisi critica?” (p.21). L’osservazione d’apertura merita senz’altro attenzione:

«In mancanza di tensioni vere, le occasioni di confronto a più voci ripiegano per lo più sui modi della contrapposizione generazionale: la generazione degli anni Sessanta contro la generazione degli anni Settanta; la generazione degli scrittori o degli editors contro la generazione dei critici; i nipotini di Sanguineti contro i cuginetti perplessi di Aldo Nove ecc.»

Dopo una prima riflessione sulla non giovanissima età dei partecipanti a questo VII convegno, Daniela Brogi segnala «un secondo dato nuovo» dell’incontro, ossia:

«al contrario dell’anno precedente, nessun testo passa al vaglio della scrittura tematiche sociali e passaggi storici di rilevanza collettiva […] Non se ne deve certo ricavare una discriminante di valore. Ma vale la pena di riflettere su questa apatia normalizzata con cui la scrittura prende distanza dalla realtà».

Ecco una prima domanda che potremmo formulare: ma veramente vale la pena riflettere su questa apatia? Se si tratta di un’apatia “a contrasto” con altre scritture di appena un anno fa, chi ci assicura che i giovanissimi o i vecchissimi di Ricercare 2000 non si produrranno in scritture estreme violente pregevoli su «tematiche sociali e passaggi storici di rilevanza collettiva»? E ancora: cosa cambierebbe, perfino in quel caso?

Ma proseguiamo con la lettura del testo di Brogi:

«Al cospetto di un repertorio così disgregato e talvolta chiuso, se non ostile, a una verifica interdialogica [essendo gli autori non inquadrabili in una “poetica di gruppo”, NdR], era difficile che la discussione sui testi stabilisse momenti di forte connessione. All’origine di una certa stanchezza del dibattito di Ricercare – ha osservato Luperini nella tavola rotonda conclusiva – si pone anzitutto la difficoltà di trovare matrici comuni e di delineare schieramenti netti tra gli autori. È mancato un campo su cui dividersi, come ha detto Cortellessa. Può darsi che ciò dipenda da una complessiva crisi delle idee e delle categorie critiche (sono ancora parole di Luperini) che si ripercuote sugli scrittori».

Tuttavia è nelle parole conclusive dell’articolo che troviamo la maggior ricchezza di materiali per la nostra discussione:

«Né si può tralasciare il fatto che oggi sempre di più si indulga a un rapporto unilaterale tra autore, editore e pubblico, che scavalca la funzione della critica, azzerando le sue risorse. Definitiva, in tal senso, è stata la verità dichiarata alla fine dei lavori, quando Laura Lepri ha ammesso che i veri luoghi della società letteraria oggi sono le scuole di scrittura e le case editrici. Ma se questo è vero (e non ci sono molti dubbi), a maggior ragione è importante che la formula dinamica di Ricercare tenga in vita uno spazio di confronto e di discussione. Non fosse altro che per riaffermare (come hanno fatto anche Ceserani, Lorenzini e Turchetta) che la critica è un atto etico e politico che coinvolge i destini di tutti».

Seconda domanda: cosa accade nelle università ma anche nelle strutture sociali non legate al letterario, perché – oltre a «riaffermare» (ossia a ripetersi) che la critica è «atto etico e politico» – si trasformi di fatto l’insieme delle medesime università e strutture attraverso concreti atti (etici e) politici?

Terza domanda: l’indulgere a un «rapporto unilaterale tra autore, editore e pubblico, che scavalca la funzione della critica, azzerando le sue risorse» ha dei soggetti? Chi sono? Fuori i nomi e i cognomi. (Sarebbe già un primo «atto etico e politico»).

Laura Lepri sensatamente ammette che «i veri luoghi della società letteraria oggi sono le scuole di scrittura e le case editrici». Ma: quarta domanda: è pensabile una persona X che prenda su e denunci, d’un tratto, che questo stato di cose ha degli attori W e Y e Z, che dirigono il tal dipartimento di studi bellettristici, che scrivono sulla talaltra rivista, che recensiscono e legiferano dalla terza pagina del noto quotidiano, eccetera, e che tutti costoro sono attori liberi che liberamente scelgono che le cose siano e stiano così?

Quinta domanda: è possibile costruire o essere tale persona X, o casa editrice antagonista o critico o editor o giornalista? Se è possibile, come mai dalla potenza si passa assai raramente all’atto?

[Tra gli esempi più nobili e sanamente “maleducati” di coraggio, vorrei ricordare qui l’articolo “Le botteghe dei poeti”, di Pierluigi Pellini, in «Allegoria», a.VII, n.20, Nuova Serie, 1995, pp.132-137].

Che «l’immaginazione» e Ricercare siano luoghi eccezionali, come laboratori di scrittura e critica e lettura, è fuori discussione. Ma (sesta domanda:) non sarebbe forse giusto, proprio in virtù della loro eccezionalità o eccentricità, che al loro interno esplodessero sempre più e con evidenza sempre crescente quelle contraddizioni e quelle voci antagoniste capaci di porre le primissime basi per un’analisi allargata tanto della società letteraria contemporanea, quanto della società tout court? Se non da queste sedi, e da queste (autorevoli) voci, da quali ci si potrà attendere un inizio di nuova critica radicale a società e letteratura?

(N.b.: queste ultime cinque domande sembrerebbero in frontale contraddizione con la prima; si vedrà più avanti che così non è).

 
 

3.

Confermando in parte alcune analisi svolte da Daniela Brogi, l’articolo di Margherita Ganeri (p.22) intitolato “Un bilancio” definisce questa edizione di Ricercare «magmatica e individualistica», senza gruppi letterari definiti, e tale da registrare in più una «riconosciuta crisi della critica». Più avanti si accennerà a ulteriori temi e suggerimenti di lettura (che troveremo anche in Nicola Signorile) che Ganeri offre rimarcando, in molte scritture degli autori intervenuti, un innamoramento per le patologie nevrotiche o psicotiche.

Qui per il momento atteniamoci alla linea finora seguita, e leggiamo:

«Il convegno di Reggio Emilia è un appuntamento importante, ed è anche l’unico del suo genere in Italia. Pertanto, ne va auspicata e vivamente caldeggiata una sempre maggiore visibilità e incisività.

   «Prospettiva che può realizzarsi solo puntando sul significato di avamposto e di osservatorio privilegiato del nuovo. La posta può essere in futuro elevata, come del resto è emerso nella tavola rotonda della giornata conclusiva del convegno, esplicitando meglio i criteri e le motivazioni della selezione degli autori proposti, che invece sono sembrati un po’ imprescrutabili e qualche volta casuali. Alla riuscita dell’iniziativa, inoltre, gioverebbe un qualche pre-orientamento degli interventi critici. Senza nulla togliere al fascino del commento “a caldo”, una preparazione preliminare sortirebbe l’effetto di una maggiore pertinenza analitica».

Immediatamente, segue la sconsolata chiusa che dice:

«Certo, agli editori i critici non interessano. Proprio per questo, però, è importante decidere se “Ricercare” dovrà configurarsi in futuro come un laboratorio deputato all’incontro-scontro tra poetiche in via di formazione oppure, invece, come una passerella per le sfilate di campionari letterari che i manager editoriali presenteranno al mercato dei lettori, un mercato peraltro, difficile e ristretto forse anche a causa della mancanza di vere e serie valutazioni critiche».

È impossibile non condividere questo timore di Margherita Ganeri. E tuttavia rileviamo anche qui: se «agli editori i critici non interessano», ogni futuro tentativo di esistenza e resistenza di un ruolo per la critica letteraria va allora ricercato nella volontà di modificare un mercato «difficile e ristretto»? È dunque per pure ragioni di fluidificazione del mercato che si riattiveranno quei circuiti della critica di cui si registra ora il black-out? È questa la settima domanda da porre.

L’articolo di Nicola Signorile, intitolato significativamente “Frammentazione e nuove sensibilità” (p.23), sposta l’analisi ancor più verso un’osservazione degli scrittori come fortemente attratti dall’«estetica del “post-human”», dunque da quello che Mario Perniola definirebbe «realismo psicotico» [cfr. un articolo recente di M.P.: “Diventare l'Altro (verso un realismo psicotico)”, in «Anterem», n.56, I semestre 1998, pp.73-76].

Sospendiamo ancora per un attimo il confronto con questo versante degli articoli in rassegna, e soffermiamoci su due punti del testo di Signorile. Il primo:

«I giovani scrittori ora vanno in ordine sparso. […] il bilancio sintetico dell’ultima edizione di “Ricercare” […] registra una varietà di pratiche narrative e poetiche nella quale non si intravede alcuna tendenza forte. Era accaduto già l’anno scorso e con sorpresa poiché nelle precedenti edizioni si erano manifestate correnti – o se si vuole atteggiamenti – di notevole risonanza ed anche di successo editoriale.

   «Come giudicare la frammentazione? Certo non come un segno di debolezza della ricerca o di stanchezza di questa forma di dibattito che è oramai in Italia l’ultima zona franca nell’industria culturale di massa, l’ultimo territorio in cui critici e autori possono incontrarsi senza la mediazione degli editori e degli apparati commerciali».

Ottava (composita) domanda: se nelle precedenti edizioni di Ricercare «si erano manifestate correnti – o … atteggiamenti – di notevole risonanza e anche di successo editoriale», ciò significa forse che il convegno emiliano può definirsi naturalmente al riparo dall’«industria culturale di massa»? Non sarà vero il contrario? Non rischierà di essere invece – come immagino suggerisca Ganeri – proprio il prossimo boccone di quella stessa industria? O lo è già? E cosa si fa, al suo interno o “lateralmente”, per attenuare – almeno attenuare – questo rischio o stato di cose?

Nona domanda: la più volte denunciata «crisi della critica» non andrà forse affrontata e discussa perfino con più urgenza – e direi veemenza – rispetto alla annuale ricerca del nuovo “in sede creativa”? Quel “nuovo” –  si suggerisce qui – addirittura si trova già, e come sempre, del tutto esposto alle matte voglie del mercato editoriale. La critica letteraria non è davvero una “soluzione” a ciò, ma perlomeno avanza o avanzerebbe quelle istanze di rigore e auto-osservazione di cui talvolta gli scrittori possono mancare; e di cui mancano senz’altro quando i loro referenti primi e ultimi finiscono per essere gli agguerriti editors delle grandi o medie imprese editoriali.

Come dice Signorile, Ricercare è e sarà ancora a lungo (è un augurio che va rilanciato cordialmente) «l’ultimo territorio in cui critici e autori possono incontrarsi senza la mediazione degli editori e degli apparati commerciali», ma se questi editori e apparati non vi compaiono come «mediatori», di certo intervengono subito dopo come manipolatori finali del prodotto letterario.

Attenzione: devono e dovranno intervenire. Non esiste cultura letteraria senza editoria, senza “apparati”. Ma va affrontata e risolta la questione del ruolo attivo e positivo di schermo/filtro che la critica svolge tra chi scrive e chi stampa.

Per concludere la rassegna, ecco l’annunciato secondo punto dall’articolo di Nicola Signorile:

«Divisa tra la contemplazione fenomenologica del ribollire degli stili (come fa Barilli … ed anche Remo Ceserani), ed il desiderio di maggiore rigore sperimentalistico (Paolo Renello, Andrea Cortellessa), la critica attraversa la crisi. Le ragioni del disorientamento sono, secondo Romano Luperini […] “nell’assenza di quei conflitti che animarono gli anni passati ed anche nella mancanza di categorie critiche adatte a capire una letteratura che sta nascendo”.

   «Forse ci sono altre ragioni, oltre quelle indicate da Luperini: un certo timore di apparire poco ecumenici (o poco postmoderni) di fronte ad una soppressione delle dogane estetiche, un’apertura a migrazioni di pratiche di scrittura che reclamano non la padronanza degli strumenti del mestiere critico, ma una loro totale sostituzione. Ed è questa la prospettiva che deve avere di fronte a sé una nuova critica se vuole ricostruire le condizioni vitali per la “comunità ermeneutica” perseguita da Luperini. Una prospettiva come questa non può evitare di essere eteronomica, interessata al dialogo con saperi e territori diversi e anche lontani (è quel che propone Francesco Leonetti – ed ora anche Luca Beatrice)».

Questo frammento dall’articolo di Signorile ha qualcosa di inconsueto, addirittura di singolare. Analizziamo cosa.

Il periodo che approfondisce le «altre ragioni [del disorientamento della critica], oltre quelle indicate da Luperini» sembrerebbe stigmatizzare «un certo timore di apparire poco ecumenici (o poco postmoderni)» e condannare quella «totale sostituzione» di strumenti critici che il postmoderno invoca e comporta. Ma già nel periodo successivo, Signorile a sua volta auspica esattamente «una prospettiva come questa» a soluzione della débâcle critica.

Una nuova prospettiva di critica eteronoma «interessata al dialogo con saperi e territori diversi e anche lontani», non solo plausibile ma direi necessarissima, viene in tal modo stranamente sovrapposta (ma forse è un difetto di composizione tipografica, o una svista nella revisione dell’articolo) all’ecumenismo postmoderno, alla integrale sostituzione dei vecchi strumenti dell’indagine del letterario con un nuovo set di criteri – di mercato? – capaci di assicurare non più quello che Luperini chiamerebbe conflitto delle interpretazioni, ma semmai una spicciola concorrenza di prodotti (letterari o pseudo-saggistici) nel comune mercato della scrittura.

Non credo affatto che sia questo il messaggio di Signorile. Tuttavia le osservazioni che svolge intorno al “post-human” potrebbero tendere verso una simile direzione.

Parliamone, dunque.

 

4.

Un primo accenno al tema, come si diceva, è rintracciabile già abbondantemente nel “bilancio” stilato da Margherita Ganeri.

Ma – pur brevi – spiccano più espliciti i rilievi di Signorile, quasi in chiusura di articolo (a inizio del quale il critico aveva fatto riferimento alla Biennale di Venezia curata da Szeeman, e ad altre manifestazioni d’arte contemporanea):

«Una tendenza è quella che possiamo definire “metaletteraria”. […] Un’altra tendenza, che a noi appare più interessante, è quella che possiamo in qualche modo ricollegare all’estetica del “post-human”, interpretata in modo ora consapevole ora no. Ma c’è l’indagare su campi inediti della percezione sensoriale e sulle identità mutanti. È una linea che nella letteratura giovane e di ricerca italiana si è già manifestata nei lavori di Isabella Santacroce, di Simona Vinci e – in parte – anche di Giulio Mozzi».

Dunque è una linea che ha già ottenuto un riscontro in termini di editoria, e proprio in virtù di una coappartenenza a un mercato ben più corposo e vitale (e vertiginosamente attivo), quale quello dell’arte contemporanea, che nell’ultimo decennio ha registrato la compiuta sovrapposizione di estetica ed economia, nella persona e nelle proposte – p.es. – del critico Jeffrey Deitch, come è a tutti noto.

Decima domanda: Deitch è il modello di critico-mercante (o comunque critico nel – e per – il mercato) a cui si può rivolgere una critica letteraria in cerca di nuovi strumenti di bordo? La «totale sostituzione» di strumenti critici che il postmoderno esige è esattamente questa: l’abdicazione dello sguardo critico come (anche) sguardo dubbioso sui rapporti tra estetica ed economia.

Che questi rapporti siano visibilmente (o si siano affermati violentemente come) diversi da quelli prospettati o analizzati da tutta la linea di pensiero dei critici più o meno definibili marxisti, è un fatto. Ma non è detto che tutti i fatti possano o debbano venir accettati in tutto semplicemente perché esistono.

È fuori discussione che sia essenziale e interessante una linea di ricerca poetico-narrativa che indaga «campi inediti della percezione sensoriale e … identità mutanti». Altrettanto fuori discussione dovrebbe essere l’attenzione della critica (come attività che osserva i fenomeni dal loro interno e in qualche modo li oltrepassa) per le direzioni delle frecce causali.

Ovvero. È il “post-human” che ha sollevato il problema delle «identità mutanti», o è l’industria che ha bisogno di corpi da rimodellare, e così dà spazio a un “post-human” che rilanci tramite “le arti” esigenze da soddisfare poi con moltiplicati prodotti?

È la filosofia contemporanea che disserta sui transiti o è il mercato mondiale a offrirgliene vagoni, istituendo tecnicamente le precondizioni materiali, i luoghi e gli oggetti del transito come “nuova” categoria? (In effetti, la novità risiede nell’acquisito d’entusiasmo dell’autocoscienza: il mercato scopre di poter fare affari ulteriori trasformando addirittura in categoria filosofica e fatto d’arte quella che già è da sempre la propria legge di funzionamento: il fluire dei capitali, transito per eccellenza).

Deitch è un geniale critico che ha visto prima di ogni altro un aspetto dolente della astratta generica condizione umana fine secolo, o un critico “di specie diversa”, nuovo, che ha selezionato un terreno per determinati investimenti?

Tutto ciò andrebbe poi, è chiaro, inserito in una discussione da riprendere: su quello che forse è ormai inutile definire “senso estetico moderno”. L’abbaglio di molte letture antagoniste dello Spettacolo e dell’arte può risiedere probabilmente in una mancata indagine sulla corradicalità del produrre/acquistare senso in “estetica” e in economia. (Dal XVIII secolo in qua, logicamente).

Radici ambigue-comuni vincolano fra loro, ben prima di Kant, l’oro-aura all’oro-moneta. L’osservazione non è nuova, ma vuole qui offrirsi come spunto per un rinnovamento della critica (anche) letteraria a partire dai mutamenti recenti proprio di quello che è stato detto senso estetico moderno.

Questa riflessione vuole sgombrare il campo dal sospetto che qui si promuova un’ennesima trasformazione di certo sociologismo in critica, che premia o condanna autori e opere secondo una tavola di valori legati al più o meno alto tasso di antagonismo nei confronti dell’”esistente”.

Ciò non toglie che esistano e si moltiplichino scritture creative e forme saggistiche che capovolgono di fatto qualsiasi antagonismo, stabiliscono una tavola di valori determinata, e sanno farla funzionare – ottimamente. Su tali eventi occorre reimparare ad affilare armi precise, e precise forme di disincanto.

 

5.

Cosa si vuole insomma qui suggerire – oltre che chiedere?

Ecco: se, nella catena “autore-critico-editore-lettore”, i termini primo e ultimo sono via via meno (criticamente) incisivi nel mercato d’insieme delle lettere, dovremo iniziare a domandarci in cosa ciascun singolo elemento, nell’interagire con gli altri e con il contesto sociale e letterario e con soggetti ulteriori ancora in sede di letteratura, abbia sbagliato. Se di sbagli si può parlare.

Se invece il mercato letterario ci sta bene così com’è, allora non è il caso di interrogarsi su nulla, e il complesso degli affari interni ed esteri della repubblica delle lettere può rimanere in gestione a tutti coloro che attualmente ne dispongono. Nel modo esatto in cui ne dispongono ora.

Se è vera l’ipotesi che fin qui si è ripetuta citando gli articoli de «l’immaginazione», ossia che gran parte del conflitto tra editoria e critica si è ormai risolto con la disfatta di quest’ultima, possiamo compiere ancora un passo e giungere a un’ennesima più rigorosa domanda: non è forse vero che, alle spalle di tale ultimo (per ora) conflitto, si impone con forza (ma già a monte, da prima, come fattore di spinta anche nell’editoria stessa) una sostituzione in blocco della categoria del conflitto con quella della concorrenza o competizione? E non accade, questo, prima nel mondo e poi nella letteratura?

Che Marx fosse morto, forse a molti era giunta notizia; ma non era ancora così evidente che l’intero “corpo intellettuale” (vecchie formule!) avesse integralmente rimosso ogni e qualsiasi memoria di certe sensate distinzioni.

Confliggere significa scontrarsi per ideali opposti, malamente o per nulla conciliabili. Misurarsi anche con asprezza.

Concorrere o competere significa invece esser d’accordo sulle linee di massima di un sistema generale e, all’interno di quello e senza mai e poi mai metterlo in discussione, con/correre nel perseguire obiettivi appena differenti, o “diversificati” – come più managerialmente si dice.

In sostanza, si vuole qui avanzare il sospetto che i termini estremi della catena del sistema letterario, ossia l’autore e il lettore, siano né più né meno che omologhi, banalmente omologhi, ai termini estremi di qualsiasi catena produttiva postmoderna, entro la quale il consumatore è un feto cieco e sordo che sorbisce liquami prefiltrati, e il faber iniziale è cellulina di una massa lavoratrice amorfa raramente lusingata da premi di produzione sempre revocabili.

Lavoratore e consumatore del “lavorato”, poi, lentamente vanno a coincidere: la massa fatica e produce per se stessa materiali sempre più ingombranti e innecessari, ma deve farlo, perché mettere in dubbio il contesto generale che la tiene in vita metterebbe in dubbio la sua stessa vita. Questo i mediatori (i padroni, l’editoria, eccetera) lo sanno bene, dato che lucrano sull’intero meccanismo. Ne deriva che non certo dall’editoria, da questa editoria, si può aspettare ciò che – del resto – non a lei compete: ossia, daccapo, la critica – in accezione vastissima.

La sconfitta della critica si presenta così come la sconfitta di un più generale sguardo critico sul mondo. Salvo poi – da parte di editori e perfino di scrittori intelligenti – recuperare certe battute e movenze sintattiche «d’opposizione» e perfino radicali (recuperarle appunto come battute) che soddisfino un mercato ulteriore in cui ci si possa sentire a posto con la coscienza perché si è letto o rieditato Debord o si è escogitata una copertina con tanto di A cerchiata.

Questi sono in fondo vecchi discorsi. Per riaprirli, e legarli a precisi fatti politici, si può ricorrere tuttora assai utilmente al libro di P.Volponi e F.Leonetti, Il leone e la volpe (Einaudi, Torino 1994, in particolare le pp.159-164).

Ma soprattutto: dovremmo rileggere davvero con attenzione e con rispetto quello straordinario articolo di Franco Fortini, scritto nel 1964 e poi inserito in Verifica dei poteri (Einaudi, Torino 1965 e 19894), che è “Istituzioni letterarie e progresso del regime”. Qui andrebbe citato integralmente; purtroppo è impossibile.

 I nuovi discorsi potrebbero allora ripartire dalle “strutture”. Cosa si intende per strutture? Si intende appunto: case editrici, cooperative di distribuzione libraria, siti letterari NON solo letterari, azioni di boicottaggio di iniziative culturali ambigue (l’uscita di Pintor e Rossanda da «MicroMega» al tempo della Guerra del Golfo fu giustamente esemplare), istituzione di riviste e “officine di critica” che non rispondano a connessioni rigide e inaggirabili con alcuni titani dell’accademia. Eccetera.

Insomma: autogestione di una qualche forma di alternativa a quel che già (pesantemente) esiste.

«Autogestione – quella medesima che si propongono i ricercatori scientifici [sic] – significa tutto quel complesso di garanzie e franchigie che dovrebbero sottrarre ai criteri del profitto o del privilegio l’esercizio delle istituzioni letterarie, dalla critica alle scelte editoriali, dall’insegnamento alla ricerca». (In “Istituzioni letterarie e progresso del regime”, appunto).

 

La possibilità – una notevole possibilità – di costruire opposizione resta. Ovviamente ha un prezzo. Di conseguenza, tutti noi ne parliamo. Per ora, niente di più. Davvero quasi niente.

        «Le lucertole lo sanno»

      (Fortini, Sette canzonette del Golfo)


Indice recensioni e note critiche
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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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