Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Ted Pearson: le evidenze dello scrivere poesia 
di Marco Nieli



Ted Pearson, Evidence (1975-1989), San Francisco, GAZ, 1989, pp.286

Diffidare dell'evidenza è sempre buona pratica, nella poesia come nella vita, se non fosse che il termine inglese contiene in sé una molteplicità di significati, difficilmente veicolabili attraverso una traduzione letterale in italiano. "Evidence" è infatti, sul piano più immediato, l'evidenza di ciò che è (appare), ma è anche la prova, testimonianza o traccia ambigua che rimanda (o forse è solo un'illusione?) a un altrove di senso indeterminato. Un termine assai più complicato della sua pura e semplice evidenza, dunque.
E' appunto tale complessità che riecheggia nelle pagine di questo libro di Ted Pearson, che raccoglie il meglio della sua produzione dalla metà degli anni '70. Poeta raffinato e affinato al laboratorio degli "oggettisti" americani George Oppen e Louis Zukofsky, Pearson rielabora in un modo tutto suo le indicazioni di metodo provenienti da questo filone ancora in buona parte misconosciuto (almeno in Italia) della lirica statunitense contemporanea. La concezione di una poesia quanto più prossima possibile agli oggetti e di un linguaggio capace di rendere fedelmente se non altro l'estrema ambiguità dei fenomeni è presente in Pearson, ma mediata da una sensibilità tutta contemporanea per gli allettamenti formali (e meta-formali) della parola poetica. Tra queste due polarità si muovono le sequenze lunghe di Evidence, dai titoli richiamanti vagamente le trame non-figurative dell'Action Painting o i cromatismi distorti espressionisticamente di un William Carlos Williams: The Grit (La ghiaia), Reaped Figures (Figure mietute), Refractions (Rifrazioni), Ellipsis (Ellissi), The Blue Table (La tavola azzurra), etc.
Se la serialità e l'indeterminazione appaiono i tratti di poetica che Pearson più spontaneamente appare condividere con tanti Language poets della sua stessa generazione, molto personale è tuttavia l'intonazione lucidamente consapevole dei processi di erosione della parola prodotti dall'incessante lavorio del silenzio ("without silence / is no gain"). E' così che fin dalla prima pagina di The Grit leggiamo:
Somehow
it seems to destroy us

sun   rock   sea

these elements
at the edge
of a continent

windswept

there is a wearing down
there is a wearing away

there is a way
["In qualche modo /    sembra distruggerci // sole   roccia   mare // questi elementi / al limite / di un continente //  spazzati dal vento // c'è un consumarsi / c'è un logorarsi // c'è una via", da The Grit, p. 11.]
Sembra di sentire risuonare l'eco del migliore Creeley in queste pagine dove il non-detto distilla frammenti di visione attraverso il filtro di una lingua poetica oltremodo essenzializzata, scarnificata (nel senso letterale del termine) o, se vogliamo, denudata di tutte le ingombranti sovrastrutture della letteratura.  Il fatto è che, per Pearson, la realtà non può esimersi dall'essere semplicemente ciò che è, al di là dei nostri goffi tentativi di imporre un ordine mentale (o linguistico) al  caos dei fenomeni. Fenomeni che di per sé si presentano, del resto, al focus nitido di uno sguardo eroticizzato ed esatto sotto la veste ambigua e inquietante dell'indeterminazione. Solo ciò che si presenta conta infatti nell'universo poetico di Pearson, che è fatto di eventi, contingenze, tracce di cui si è perso il senso, (evidence, appunto) piuttosto che di sostanze solide e di narrazioni compatte:
of all things no one
living but flares

and is lost

the marvels
scattered lines
staggering

empty at last
unintelligible
sleep       harbor

no tide strains

who sang of the moon
and dry weather
["di tutte le cose nessuna / vivente se non i bagliori // ed è perduta // le meraviglie / versi dispersi / barcollanti // vuoti alla fine / inintellegibili / sonno     porto // nessuna marea tira // chi cantò della luna / e del tempo asciutto", da Reaped Figures, p. 41]
Contrariamente alla carriola rossa di Williams, la "blue table" di Pearson non è un referente assoluto per lo sguardo poetico, ma nella sua astratta indeterminazione emerge come "a figure // drawing attention / from the difficult // events in the room". Al limite, non esistono per Pearson statuti ontologicamente definiti per ciò che comunemente si intende con oggetto o soggetto: si tratta di posizioni o prospettive che si intersecano tangenzialmente nella contingenza dell'evento. Lo "script" di questo percorso di rivelazione del reale attraverso il linguaggio poetico appare "indecipherable", che è sicuramente più di "ermetico", nell'accezione che questo termine è venuta ad acquistare nel Novecento italiano. Con il rischio di semplificare forse più del dovuto, si può dire che il personalissimo dettato poetico di Pearson risulta da una singolare evoluzione della slantness dickinsoniana e, dal punto di vista prosodico, del variable foot williamsiano in una versificazione rotta, frammentata e discontinua, dagli esiti difficilmente prevedibili e tutta votata all'"horror vacui" del nulla che la sottende. In fondo a tale lucida consapevolezza del vuoto è tuttavia dato intravedere qui e là, seppure sotto forma di folgorazione intuitiva più che di sintesi costruttiva, una sorta di mistica fede animale nelle capacità regenerativa della parola e, attraverso la parola, della vita stessa. E' così che leggiamo in The Blue Table come il "something else" che è "beyond what is", difficilmente identificabile con una prospettiva trascendente in senso religioso ("hardly a covenant / though the heart opens"), si configura in definitiva piuttosto come quella "travel light // intimate knowledge / at the ends of nerves // the end of speech // faith".
Altrove, come in Coulomb's Law, la vena di irrazionale misticismo materico che pervade il libro viene approfondita alla luce degli inconciliabili contrasti analogici che il linguaggio non cessa di generare da se stesso sotto la spinta delle occasioni concrete offerte da una realtà multiforme e ambigua. Come già in C. Olson, metafore di apertura e flusso vengono veicolate attraverso una terminologia mutuata dalla fisica, nello specifico la legge elettrodinamica di Coulomb, secondo la quale due elementi di carica opposta si attirano, mentre due di carica identica si respingono. L'apparente effetto di compattezza delle quartine (o distici) che compongono la sequenza è data dalla risonanza che ciascun frammento proietta sull'insieme, piuttosto che da una ricerca di unità formale precostituita. Come in una agnostica coincidentia oppositorum senza paradisi a buon mercato dietro l'angolo, la poesia di Pearson raggiunge in queste pagine una singolare densità visionaria, che non significa affatto concentrazione lirica nel senso usuale del termine:
city limits     sleep cycles       frayed
nerves versus metal fatigue     arpeggiated wonders
body and soul         the celebrated
pleasures of the mouth
 ["limiti della città        cicli di sonno         sfilacciati / nervi versus fatica mentale           meraviglie arpeggiate / corpo e anima      i celebrati / piaceri della bocca", da Coulomb's Law, p. 148.]
Le associazioni di termini eterogenei sono veicolate dalle corrispondenze di suono, prima ancora che dal livello semanticamente connotato. In ogni caso, il gioco dell'associazione analogica è spinto così all'estremo che ciò che tiene insieme le unità elementari di ogni sequenza non è tanto una continuità di tipo dialettico bensì una forza di tipo inconscio, transpersonale e translinguistico, la quale agisce al di sotto e al di là di ogni volontà di costruzione o di coerenza formale. Che si tratti di una forza fisica o psichica, o forse di entrambe, non conta molto: nelle derive di linguaggio che essa pone in atto, miracolosa appare persino la semplice aggregazione di due unità minimali, due puri zeri o nulla, la cui somma approda al due ("strange to have come to two / when one had come to none").
Tutto ciò che rimane, al di là o intorno alle macerie di un linguaggio ridotto a quel punto di non ritorno che appare essere il "matter's terminale" per Pearson,  sono scampoli di visione su zone dell'essere inaccessibili allo sguardo o alla logica comuni. Infiltrazioni di una grazia quasi magicamente rubata al silenzio che attanaglia la parola, scampoli di un paradiso o una luce "apocryphal" sui quali puntare l'ultima maledetta posta della scrittura,   l'antico "truly primitive / weight of beauty at anchor" tralucono in brevi effimere folgorazioni attraverso le maglie sfilacciate delle parole. In Catenary Odes è l'utopia whitmaniana del "body electric" contrapposto alla "western mind in a jar" che determina singolari aperture di campo, capaci di far collimare l'universo di disperazione e nulla che è la scrittura con le liberazioni momentanee indotte dai non infrequenti "provisional moments of grace". Anche in questa sede ritorna l'idea, con la quale si apriva il libro, di obbedienza all'occasione come unica reale motivazione per lo scrivere poesia ("each thing equal to the shape of its moment / dressing edenic meat"), dal momento che i processi formali sfuggono al controllo dell'intenzionalità cosciente e che non è possibile veramente indirizzare qualcosa dalla quale non si finisce di essere indirizzati:
the continuity      there is something
had been shattered     a world
we call it       but not the details

grammar suffers the fatality
of the given       the forms
we are     lost in them       known by
["la continuità        c'è qualcosa / che è stato frammentato  un mondo / lo chiamiamo      ma non i dettagli // la grammatica subisce la fatalità / del dato  le forme / siamo       persi in loro      da loro conosciuti", da Catenary Odes, p. 259.]
Perdersi senza fine nelle forme: è forse questo per Pearson il significato più elementare delle evidenze che costituiscono l'inspiegabile modo di essere della poesia.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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