Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Gilberto Finzi, Soldatino d'aria
di Antonio Spagnuolo



Gilberto Finzi, Soldatino d’aria, Ed. Marsilio, 2000
pagg. 128 – L.25.000

A frugare entro la naturalezza e la destrezza di un poeta, occhiutamente analitico
e determinatamente coordinato, in fondo ci si ritrova nella forza di espressione
che Finzi ha sempre saputo documentare con i suoi libri, conservando fra i residui
di un passato culturale una chiara proposta del testo, innovato in tutto o in parte,
fra le valenze propositive della contemporaneità, ove l’indole protestatoria dell’autore
straripa al di là della parodia o della invenzione  nella sua amara diagnosi di difficile
recupero della vera poesia.
“…segue non da oggi una sua vena a metà fra tetro e grottesco: ossessionato dai colori ,
specie dal nero e dal verde, in un suo modo di interpretare, anzi di praticare la poesia.
Che in Finzi non è mai o quasi mai canto totalizzante, a gola spiegata, - scrive in un pezzo
recensivo  Giampiero Rugarli – bensì glossa ironica e talvolta acidula delle aporie che lastricano
l’itinerario umano”.
Stando alla forma e al contenuto significante, nella continuità dell’evoluzione
degli incisi della coscienza, l’ onirico scaturisce da una continuità logica individuabile
nei particolari della esistenza quotidiana, apparentemente casuali per gli aspetti non recepibili,
ma consistenti di solito in alterazioni più o meno evidenti dello stato di allerta.
Eppure tutto accade fra gli accidentati bisogni del corpo, il trasformarsi delle emozioni,
lo sfigurarsi delle speranze, lo screpolarsi delle abitudini, per cui quanto più è esteso
il microcosmo individuale tanto più problematico e complesso è governarne il percorso,
spiando ed indagando entro tutte le sue insidie.
Senza alcuna difficoltà si scopre ancora che dopotutto il sogno non è mai avulso dalla continuità
della coscienza, perché sono rintracciabili tutte le strutture che rimandano alla memoria.

“nella stanza più grande di casa
alta verde mano- convitato di pietra- là
dietro il ciliegio del tavolo dove
da cento anni e più
sognano di parlarsi gli Spiriti Morti-
se fruscia secca una foglia e
rumorosamente cade- sei tu che da dentro
immobile muovi la mano, e segni
in calce alla tua (con la pietra
bianca dell’inesistenza) ficus beniamina
un’eco appena, un tema,
un rimedio fantasma
perché la tua pianta insista
nella terrosa sua realtà”      (pag. 34)

Il taglio originale , che lo innalza al ruolo di costruttore del verso, figurato e sfigurato
sul piano delle cose concrete, lo impegna a scrollarsi di dosso la smania del dire a tutti i costi,
nelle figure per le quali nessun cambiamento è possibile senza la seduzione del subconscio.
In un senso di diaspora individuale Finzi cerca di comunicare un sospetto di vita unificata
che si sperde in una curiosa frattura fra l’ardimento formale e l’efficacia della sonorità
o del ritmo. La trasformazione di una   situazione psichica dell’io cosciente viene interpretata
con le rappresentazioni delle immagini archetipe come fenomeno totale non coincidente con l’io,
cioè con la personalità conscia, ma interamente afferrabile dalla parola, prima ancora
che essa possa essere messa a contatto con il pensiero, con l’ipotesi   della conseguenza logica
o dell’ignoto, che si descrive attraverso i sensi sperimentabili direttamente.

“ uno di voi nessuno
apriste apra apriremo una scena o una porta
l’unica che dà sul dopo

e un vuoto strato di neve sbilenca
che da scala trappola e chimera
sbràncola  e inciampa, virgola e branca
i tre-quattro mondi della solitudine.

Escalier, escalier! Tu m’a donné
-quoi- l’eternité- o soffusa di tempo, ladra-
il non è mai passato che per un solo secondo (il tempo)-
solo momento, il tempo – il naso buco e spaccato dal silenzio
raccapriccia, e via sgriccia di sale in sale
i gemelli per mano conducono adducono
una di due cose ignote al vivo, pure illìmiti
fino al debito di stelle, fino al culmine
di nevi sognate, fino al dorso
della sozza e sepolta nel lungo dopo

ma il fuggitivo inferno porta le onde
al piede dell’amore, e bacia l’altra
deforma faccia, morta, della luna-mondo.

Chissà chi viene, chi va, da dove e perché,
sarà per vivere di vita un dopo, un poco,
un’infinita e bella vività di eterno?”  (pagg. 9, 10)

Lo spazio che Gilberto Finzi attraversa con le sue composizioni dà un senso suo proprio
alla trasgressione del vocabolo, senza mai calpestare gli arbusti, senza proporre violenze
che sciorinano le verità assolute,  adeguando, altrettanto convincente, le aspirazioni
di una generazione, all’altezza del proprio disagio, alla fine di un sogno culturale,
che non ha mai dato certezza, rivestendo una natura circolare che non può sparire
al centro della scena, se non dopo aver detto di se , senza un perché, senza una ragione.
Le immagini del sogno partecipano allora degli avvenimenti quotidiani, consumandosi
in una amalgama che non vuole venire a patti con la realtà, e confluiscono nel tessuto verbale
che l’autore ricama in soluzioni espressive insolite e strettamente personali.
Una volta desto l’eterogenea pulsione di riempire il vuoto costringe il poeta al dubbio,
quel famoso dubbio esistenziale che ci accompagna giorno dopo giorno , nel consumarsi
inevitabile delle tavole, della instabilità fisica, della esigenza di liberare le maglie
del contingente per creare nuove occasioni, anche se il futuro diviene maledettamente
sempre più corto.

“quello che tiene insieme corpo e mente, carne e niente,
non è più vero di un chiodo o di uno spillo- parte bene,chissà,
poi strappa e scatta e lacera-
dubbio, incertezza, malattia la chiamo,
  invece è solo
la fine di tutto.”  (pag.91)

Un dubbio involontario, imposto dalla storia personale e dagli eventi, un dubbio
che si affaccia a passo svelto anche verso ciò che dovrebbe essere l’anima, lo spirito,
che qui l’autore indica con “mente”, correggendosi subito per incidere con quel “niente”,
che distrugge ogni ipotesi di al di là.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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