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Poetry Wave

Recensioni e note critiche
 

Adriano Napoli, L’albero di Giuda
di Domenico Cipriano

Adriano Napoli, L’albero di Giuda
Edizioni Joker, Novi Ligure (Al), pp. 68, Euro 9,00
 

“L’albero di Giuda come simbolo dell’amore così intenso da diventare invivibile”. Così scrive Sandro Montalto nella precisa e completa prefazione all’opera prima del salernitano Adriano Napoli, autore già apprezzato nel panorama della giovane poesia italiana. Versi come “Ma io dalla mia morte / involontaria e ventosa continuo ad adorarlo” esprimono tutta la passione, la sofferenza per amore, una dedizione ostinata a non cambiare rotta e farsi guidare dalla propria natura più profonda. Partendo da questo assunto, nella raccolta troviamo spazio per il racconto, con personaggi dai caratteri definiti che fanno riflettere sul quotidiano (ISTRUTTORIA, pag. 43), o che si snoda in un dialogo stretto e realista per denunciare la solitudine di chi fa poesia di fronte alle regole del mercato e alla vita di tutti i giorni, fatta di obblighi e tempi cadenzati e frettolosi, con sempre meno spazio per la riflessione, per i sentimenti, sciorinando la gentilezza per dovuta cortesia di facciata (IN LIBRERIA, pag. 37).

Ma questa prima raccolta è anche un libro di ricordi, cercati e ritrovati (“L’odore delle case vecchie / ti rimane sulle labbra”, pag. 31) che non si nascondono dietro la retorica, ma scavano negli odori, nei sapori: immagini vive, da cui trarre spunto per le riflessioni. Adriano Napoli non si crogiola sulla memoria, ma ha la capacità di riportare tutto alla sua esperienza attuale, alle cose concrete e vissute, per dargli un senso profondo, imprimergli un timbro col suo passato per rendere tutto indelebile, fisso nella mente; un processo per apprendere e capire il perché di un percorso intrapreso: “Se mia nonna fosse viva / avrebbe la voce dei miei poeti: / Luzi Eliot Bertolucci” (pag. 51).

“L’indagine del poeta è a tutto tondo – scrive ancora Montalto – ma procede accortamente per capisaldi, dal rapporto filiale a quello amoroso, dall’appartenenza ad un luogo geografico alla condivisione del destino umano”, così il vissuto dell’autore sgorga dalla terra, dal suo legame intenso, tipico dei poeti del Sud, che egli esprime anche scandendo i nomi dei paesi: Baronissi, Lancusi, Rufoli, Calvanico, questi ultimi accovacciati sui monti, col loro percorso di curve strette, che hanno anfratti da scoprire, che nascondono la memoria “quando il libro della mente / mi riporta sulle strade di Rufoli” (pag. 51). “Città silenziosa, tu dormi / assopita dalla cicala agostana / e non senti il rantolo della terra ferita” (pag. 30) è un altro aspetto del canto meridionalista che emerge, il poeta che si sofferma sull’indifferenza ai richiami di una terra che ha bisogno di cure ogni giorno per rinascere. Ma Adriano è partito, lo sanno i “…cani di pietra, muti e furenti… / …per vedermi ancora tornare per vedermi ancora partire…”, perché è questa la situazione di chi vive la precarietà, costretto a realizzarsi altrove, portando con se “l’odore delle case vecchie” e “affidare agli oroscopi i deboli rancori”.

L’autore è padrone degli strumenti della poesia e distribuisce i versi a seconda delle esigenze del racconto, versi che piroettano sempre più verso una stesura in prosa, lasciando al respiro interiore di cadenzare le pause. Così per tracciare gli ambienti, egli fissa una versificazione più regolare, anche se sorretta da enjambment per dare continuità alla descrizione, e poi lascia alla forma prosastica lo svilupparsi della storia inserendo tutti gli elementi che vengono fuori dalla memoria, che producono una vera soffocazione del respiro nella lettura, che provocano vertigini; ecco un esempio brillante e realista: “La casa era il fuoco, la distanza infinita / del cielo quando si rifrange in spiagge deserte; / la casa era il vento e il marmo su cui stesero / le viscere del porco e il sangue bollito da cui presero forme il rosso dei ginocchi e le capriole dell’infanzia quando il sonno ci minacciava prima del telegiornale e sull’impiantito restavano come cadaveri dopo una battaglia / i mattoncini scomposti delle costruzioni Lego;” (pag. 25).

Occorre inoltre citare che non manca l’occasione per soffermarsi sui fatti più rilevanti e significativi dei nostri giorni, e una originale “PASTE TENSE, pag.57-60”, tra scarti di dialogo in italiano ed inglese, riporta alla mente gli eventi tragici dell’11 settembre: “I’ve never seen it inside // ora l’orizzonte è un semaforo / che lampeggia / continua per nessuno / a dare verde / alto sulla povere // indenne” (pag. 60).

Quindi, tutta la raccolta si snoda in un lungo racconto, ora in versi ora narrato, in cui non mancano personaggi, riflessioni di vita e memoria; dove il dolore per le ferite della vita riaffiora per essere lenito dalla parola: parola che diventa corteccia di albero, come quella dell’albero di Ogliara o dell’albero di Giuda, entrambi con profonde radici umane che scavano nella terra.

23 novembre 2003 


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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