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Poetry Wave

Recensioni e note critiche
 

Mary Barbara Tolusso, L’inverso ritrovato
di Giovanna Frene

Mary Barbara Tolusso, L’inverso ritrovato
Introduzione di Maurizio Cucchi, LietoColle, Parè (CO), 2003, pp. 48, euro 10,00
 
 

Ci sono libri di poesia che, al loro apparire, non sono immediatamente recepiti; di converso, altri vengono invece compresi immediatamente nella loro peculiarità, o diversità, e allora il disagio che ne scaturisce può far indietreggiare l’intelligenza al comune buon senso, far dirigere l’orecchio verso lidi armonici collaudati dalla tradizione: si tenta di addomesticare il perturbante, l’irrisolto, il rischioso. Mai e poi mai, tuttavia, la poesia può essere una e una sola: dimenticare questa semplice realtà significa non comprendere appieno che orizzonte storico e materia poetica sono insieme presupposti e conseguenze dello stesso fare poetico. Le varietà della poesia, dunque, hanno uno svolgimento non solo diacronico, ma anche sincronico: come se il presente fosse un luogo dove si incrociano e si compenetrano onde poetiche di diversa natura, senza produrre caos, o meglio, producendo un caos del tutto ordinato.

Precisazioni quasi d’obbligo, queste, per introdurre il nuovo, apparentemente facile, libro di Mary Barbara Tolusso, nata nel pordenonese nel 1966 ma triestina d’adozione, alla sua terza prova poetica (un quarto libro, già esistente, si compone di testi tradotti in sloveno). Diciamo subito, per togliere di mezzo inutili fraintendimenti critici, che Tolusso fonda il suo dire poetico su un retroterra fortemente anglo-americano: ma più che ai modelli del primo Cucchi (Eliot e Pound) o dell’ultimo Raboni (approdato ad altissimi esiti “confessionali”), l’autrice sembra aver guardato a Carver e Bukowski, per poi dirigersi per pura affinità elettiva al Larkin. Come la poesia di Larkin è scandalosa, per non dire scabrosa, in sé e per sé, a maggior ragione quella di Tolusso lo è – essendo tra l’altro scritta in lingua italiana –: di fronte a quel distendersi rettilineo della realtà davanti all’occhio che chiamiamo percezione, lo sguardo del poeta non arretra di un millimetro – né si abbassa, né si solleva: il che infatti gli farebbe dire poi ciò che è convincente, ma non ciò che è necessario. È l’essere di per sé scabroso dell’evento puro del conoscere, che questa poesia tenta nientemeno di fissare sul foglio, senza retorica, nominando tutto senza censure e senza falso pudore, sempre però in una dimensione di cosciente e pur allibita sofferenza (in senso etimologico), la quale dà l’organizzazione stessa, soggettiva, di un sapere inevitabilmente acquisito in quanto memoria

Toccare il fatidico tasto della memoria significa riconoscere la presenza dell’ombra proustiana intrinseca al libro, tanto da apparirvi fin dal titolo, e però del tutto capovolta, quasi che il tragitto che il poeta percorre(rà) sia all’insegna del rovescio, dell’a-ritroso, dell’inverso, appunto. Questo fatto può essere confermato dalla lettura dei titoli delle cinque sezioni in cui il libro è stato suddiviso, tutti riportati nella stessa sequenza della Recherche – tranne che per l’importante assenza finale di ogni “fuga” o di ogni “tempo ritrovato”. Come se il tempo, percorso a ritroso, si fosse arrestato alla sola “prigionia”: perché lì termina il libro, di fatto. Che cosa causa questa costrizione? Il tempo stesso, la sua conoscenza, la conoscenza sempre mediata dal tempo, la conoscenza in quanto temporalità. Contro di esso la memoria non può nulla, solo prendere atto dell’entropia che è in corso, e che la riguarda, dall’inizio. Paradigmatico in questo senso è l’ultimo testo del libro, Edi-pop (p. 37), dedicato al padre scomparso quando la poetessa era ancora bambina, e che a suoi occhi di bambina indossava “un vecchio grembiule blu” come un “pastrano da guerriero”: quest’immagine mentale, unica prova affettiva si un’assenza reale, è insidiata dal tempo a causa della radice della sua stessa natura: “(…) a volte penso che l’amore assomiglia a quelle cose / che deve assomigliare a qualcosa che muore”. Il paradosso forte messo in atto da questo testo, la “prigionia”, è questo essere legati a un’immagine che continua a morire senza spegnersi mai del tutto; la conseguenza è che il tempo, inteso in questa maniera, non può essere affatto salvifico – non più. Se tutto il libro ci ha portato a questo esito, allora, per usare le parole di Eliot, “tutto il tempo è irredimibile”. La “prigionia”, dunque, è l’emblema di tutto il libro.

In un certo senso, per converso, ci si trova di fronte a una salvezza rovesciata. Anche la “correzione in corsa” effettuata tra i due versi finali (“assomiglia a”, che diventa “deve assomigliare”) è apparente, anzi denota la cifra stilistica maggiore, assieme al procedimento sillogistico, che accomuna tutte queste poesie: la tendenza cioè all’elisione del significato tramite la soppressione o distorsione del significante, espressione prima questa della sistematica attuazione del modello di rovesciamento. In un contesto di quasi assenza di ricami retorici – solo pochissime metafore e metonimie, quasi tutte ardite, afferenti per lo più alla sfera erotica, doppio vitale di quella tanatoica: “con le gambe penzoloni / per tastare una verità definitiva” (p. 17), “(…) sbattere le ali / su questa carne che pare incisa a metà” (p. 20), “con la bocca avvelenata dall’amore” (p. 25), “di te ho capito che avresti irrorato / con un dito l’inversione del mio appetito” (p. 31), “dal bordo del desiderio e / dal bavero del disappunto” (p. 34), “questo turgido benpensante / che intraprende tutto e nulla conquista” (p. 36) –, l’elisione mette a nudo l’inversione, la frattura che si apre sul vuoto, sul silenzio, e non più sull’indicibile, ma su ciò che non si può più dire, che risuona come perentoria assenza.

La madaleine che rotola il passato” viene messa in campo sintatticamente con un gesto non propriamente rappresentabile (p. 3); un verso come “rivolti a quella stessa mattina / si può vedere la banda scendere / e allungare l’istinto e il desiderio” si spiega solo in parte con il successivo “tempo che ha tolto qualcosa” (p. 9); il gabbiano che, alla fine di una poesia, guarda con occhio vitreo dalla finestra lo svolgersi della vita di società appena descritta apre un abisso di in-differenza e sospensione (p. 10); la domanda filosofica sull’esistere non viene affatto sciolta in termini poetici, ma magnificamente dilatata nell’indefinito: “non è sicuro di cosa siamo, / un deserto di piante rampicanti? / (……) / posso dirmi contenta, nonostante tutto, / di non sapere io che cos’è” (p. 11), e riproposta capovolta poche pagine dopo (“in fondo non si sa mai nulla”, p. 15); al tono paradossale di questi versi: “ci sono sempre quelli che una volta al mese / ti chiedono come farai con la pensione / e infinità di voci che domandano che cos’è la poesia. / è questo posacenere sulla scrivania? / il vestito che ho pagato a due commesse a Praga?” (p. 16), risponde la lucidità della coscienza dello scacco: “ma constato, alla fine del giorno,/ che non c’è nient’altro, / solo un capolavoro di silenzio” (p. 21). E via dicendo.

Perché, se “ognuno ha la sua Combray” (p. 3), con tutto il contorno di biscotti, baci, bambine e signore, sospetti e catleye, il tempo, però, ha irreparabilmente già “tolto qualcosa (p. 9), e ci si corica “per molto tempo (…) presto la sera” (p. 3). Da questa frustrazione poetico-esistenziale nasce anche la spinta alla resistenza razionale, che si attua con la strutturazione sillogistica dei testi poetici, in opposizione al precedente meccanismo di cancellazione: e, incredibilmente, quella che sembra una “normale” registrazione del reale (come accennato più indietro), viene simultaneamente a essere, percettivamente, anche il suo ordinamento sillogistico (con le sue varianti interne: la concrezione e il chiasmo). Penso qui a poesie come Trieste by day con sole di cotone (p. 4), La mamma ha sempre ragione (p. 5), Filosofia (p. 18), Questioni di stile (p. 26), Esame di coscienza (p. 34).

Ciò che conta, per sintetizzare, è che Tolusso, come accade per Proust, sembra guardare più alla similitudine che non all’analogia. E non è un fatto da poco, nella nostra poesia..

 
23 novembre 2003 
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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