Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Il percorso poetico di Cesare Ruffato
di Gabriele Ghiandoni
 

 

La regola aurea nella scrittura di una poesia è quella - antica ma ancora
attuale - dettata da Umberto Saba con lo scritto “Quel che resta da fare
ai poeti” (1911): “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”; si intende
parlare di onestà intellettuale e letteraria, che è “prima un non sforzare
mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione e
di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per
avventura essa sia”.
Allora seguendo questa regola (e gli insegnamenti contenuti nel
laboratorio di poesia di Ezra Pound: evitare il lirismo di maniera, l’enfasi
retorica, la sovrabbondanza di aggettivi e avverbi; inventare immagini
metafore allegorie parole dense, piene di pensiero) diventa del tutto
“indifferente”, nel farepoesia, l’impiego dell’italiano o del dialetto;
o addirittura l’alternanza dell’una e l’altra lingua, come nel caso di Cesare
Ruffato che nell’arco di circa quarant’anni (dal 1960 al 1998) ha pubblicato
venti libri di poesia.
Solo un pregiudizio pigro può far considerare un poeta in dialetto
“minore” rispetto all’analogo poeta in italiano. A questo pregiudizio
Ruffato si ribellacon il poemetto El dialeto, contenuto nel libro-pamphlet
Diaboleria (1993):

“Linguisti e semiologi culti dise
ch’el dialeto parla forastoria
‘na leteratura minore passà…

Linguisti e semiologi colti dicono / che il dialetto parla fuori storia/
una letteratura minore superata…”.
In Ruffato invece non è presente l’intenzione di usare il dialetto come
lingua estranea, morta; per lui il dialetto è una delle chiavi di lettura
- non l’unica - di una “vicenda” rappresentata da una città: Padova diletta.
Per capire sino in fondo il rapporto lingua-dialetto bisogna prendere atto
che esiste una ‘questione non risolta’ sul tema letteratura: “La
letteratura è un’attività spirituale che mira alla realizzazione di prodotti
esteticamente edificanti oppure la portata sociale del fare letterario è
una delle forme principali di elaborazione teorica?” (Edoardo Sanguineti,
L’Unità, 30/12/1991).
Il poeta in dialetto sembra propendere per la seconda parte del problema;
anche come atteggiamento di opposizione al potere che ha cercato e cerca
di imporre i propri linguaggi consunti.
Considerando però il dialetto come unica “lingua della poesia” si corre un
rischio: quello di stabilire un legame stretto con la ‘strategia
dell’immediatezza’, con la presunzione di attingere a una facile saggezza,
e l’incapacità di confrontarsi con la negatività della storia..
Esistono anche seri motivi per individuare alcuni pericoli e limiti delle
poetiche dialettali (come rileva al riguardo Gian Mario Villalta su
Tratti, 44, primavera 1997, sotto il titolo “Ragioni e limiti delle
poetiche neodialettali”); cioè:

1    L’accentuazione del fenomeno endoletterario, ovvero una circolazione
della poesia limitata ai poeti, ai critici e ai “cultori della materia”.

2    L’autocompiacimento della emarginazione: il poeta, fiero della sua
diversità e della particolarità della sua scelta, tende a sviluppare un
discorso che non ha altre ragioni se non la diversità stessa e la stessa
particolarità della propria scelta di campo. Dopo l’arcadia della
neo-avanguardia e dello sperimentalismo, ecco affacciarsi l’ipotesi di
una arcadia neodialettale.

3    L’assunzione in poesia di un dialetto non passato attraverso
l’esperienza profonda del vissuto.

E’ necessario quindi che il poeta in dialetto, per evitare di trovarsi
a proprio agio nel ghetto della bella ricordanza, eviti di essere il
testimone di una realtà demodé, con un insulso elogio dei tempi passati
che non esistono più. Anche perché il dialetto, come la storia-mondo,
non è mai statico ma in continuo movimento e mutazione, con miscele e
alternanze di codici: è una lingua macchiata, straziata.
Lo ha ben capito Ruffato che, nel licenziare il suo intero corpus di poeta
in dialetto, Scribendi licentia (Marsilio, 1998) scrive nella sintetica
presentazione: ”Questo volume raccoglie la maggioranza dei testi poetici
in dialetto padovano - mio ideale idioma da genuino diglotta ma sottoposto
a filtri di cultura poliversa e ad influenze di gerghi professionali
affiorati in privato ad iniziare dal 1960 e con processualità bioritmica
divenuti impegno creativo editoriale nel decennio 1989-1998”. Il titolo,
esplicitato in lingua dotta e con ambiguità ironica, precisa che si tratta
di “poesia in volgare padovano”; e sembra voler far entrare in scena
l’autore - professore coltissimo e scienziato - in forma sommessa.
In realtà il poeta suggerisce al lettore l’opportunità di rintracciare
nella Parola pìrola (1990) “una microstoria familiare, una cronaca
cittadina”  della sua città. Con il suo dialetto ‘memoriale’, una
scrittura irta, ardua,  una poesia ispida, ruspia/ruvida, intenta ad “aggredire”
idee e parole più che fatti e cose - sempre per altro presenti come ‘cifra nel
tappeto’ – Ruffato sembra voler individuare, in maniera esplicita,
una koiné limitata di lettori; “…l’autore, conscio del rischio di operazione
di leggibilità limitata, intende questa sua libera messa in scrittura un
tentativo di corrispondere ai misteriosi richiami della voce” (così nella
Avvertenza a Parola pìrola).
La sua intera opera in dialetto - uno dei colori, forse il più splendente,
della ricca, ampia tavolozza del poeta - mostra l’interesse rigoroso
dell’autore per la ricerca-scavo sulla parola:

Parola malà/ Parola ammalata:

el rumore fato dal gargato
le vocali prime le consonanti strane
p inisiale de padre pié pan ponte
a de albero amore anema
r de rima religio roba rumore
o de ora origine opera orifissio
l de linea letera lume limite

il rumore prodotto dall’ugola/ le vocali prime le consonanti strane/
p iniziale di padre piede pane ponte/ a di albero amore anima/ r di rima
religio roba rumore/ o di ora origine opera orifizio/ l di linea lettera
lume limite.

Parola matita :

Busiéte de la ponta matita
che no intinge el paero, el legneto
scortegà o massa uà se spaca

Piccole bugie della punta matita/ che non intinge lo stoppino,
il legnetto/ scorticato o troppo affilato si rompe.
Parola coi busi/ Parola coi buchi. Parola morbim/ Parola eccitata.
Parola denaro. Parola droga: Parola pìrola pàrola nel scuro/ doping
scorpion sbate sul muro/ specioso colabrodo la sfibra…
La parola sofferta drogata sbattuta contro il muro (oppure è la parola
che sbatte contro il muro cosa?) sale sui trampoli, viene urlata (la
parola ga alsà la vose ossessa), diventa parola sguardo, fiaba,
affabulazione, poesia-scavo. Senza però lasciarsi trasportare dal
fascino dell’innamoramento della stessa e cadere nel castello
incantato della lingua parlata solo in alcune riservate enclaves, con
il suo sottinteso potere orfico: per Ruffato la parola ha un senso solo se
contiene un pensiero denso, forte. La sua genialità nella scelta della
lingua-dialetto pare risiedere nella capacità che essa ha di avvolgersi
su stessa e non essere però più sufficiente per dire altro; quindi è
continua l’interrogazione che egli fa del mondo fenomenico che lo
circonda, teso a una impossibile “scientifica” interpretazione complessiva.
Allora la poesia-parola diventa un’allegoria della condizione contemporanea.
Ruffato assume il dialetto come lingua della parola; e costruisce quasi
un’opera astratta con uno strumento linguistico autonomo e, forse,
incomunicabile. La ‘scommessa della comunicazione’ per altri così
importante, sembra in lui essere messa sotto tono, per l’importanza
primaria attribuita alla parola-scrittura, alla poesia-espressione che
dà voce al senso delle cose.

Il mito del viaggio dentro la parola attraversa per intero la sua opera
poetica; una parola equivoca-ambigua-ambivalente piena di sottintesi
nelle sue varianti classiche e moderne: “parola parabola” (latino),
“paraula” (volgare); comunque sempre parola-protagonista.
Come è stato da altri notato, in Ruffato la parola nasce da “una tensione
non solo linguistica ma anche morale” (Mauro Marè): la scelta è sofferta,
meditata, messa a confronto. La intuizione è quella giusta, essenziale
per dire ciò che interessa al poeta in quel preciso momento (in dialetto
o in lingua). Perché l’ambiguità semantica della parola (specie quella
in dialetto) è il dono dato al poeta, che solo così può “comunicare”.
In R la poesia procede la forma e l’artista cerca - e trova - le
forme-formatrici che preesistono all’oggetto d’arte. La scrittura poetica
è piena di fermenti di ricerca, giochi linguistici di rime, assonanze,
aggiornamento del linguaggio:

Vose de sità trapèla bai, russèi
de soni neri, mòcoli morali, sguardi
fonfegai d’un poema cuerto come coa
de funerale. Zornali ramai piàtole
la sòfega de pancatastrofe.

Voce di città trapela tarli, ruscelli/ di suoni neri, moccoli morali,
sguardi / spiegazzati d’un poema ipocrita come coda/ di funerale.
Giornali omai noiosi (blatte)/ la soffocano di pancatastrofi.
Il poeta canta il suo poema - originale e acuto - contro quello
ipocrita, simile alla coda distratta e annoiata di un funerale -;
come distratti e annoiati sono i canti di tanti flebili cantori,
soffocati nelle vane pancatastrofi - queste immense catastrofi che
stanno a indicare la precarietà della vicenda-mondo: la flebile voce
del cantore, sperduto nel villaggio globale, è incapace di chiudersi
nella dimensione della sua ‘piccola patria’, dalla quale può invece
trovare nuova linfa creativa. E ancora:

Nel mal de mare del plafon imbarcà
increspo l’eliosiesta, anca le stele
s’incolpa in salisi crianti
che spuffa giosse de luse
a caena anemele, salutz e versi
che me descolpa squasi rialsa i tolti
el futile par finire la morte.

Nel mal di mare del plafond dissestato/ raggrinzo l’eliosiesta,
anche le stelle/ si colpevolizzano in salici piangenti/ che spruzzano
gocce di luce/ a catena animelle, saluti e versi/ che mi discolpano
quasi risollevano gli scomparsi / il futile per finire la morte.
La curiosità del Ruffato scienziato fa capolino in questo Vose striga/
Voce  strega, articolato nei tre movimenti: Ciao vose/ Ciao voce,
Vose sìngana/ Voce gitana, Vose striga/ Voce strega.

Nel sentire le voci che si rincorrono viene alla mente il lavoro di un
sofisticato zoologo, “Il dialetto degli animali” di Wolfang Wickler
(Bollati Boringhieri, 1988). Lo scienziato afferma: “gli uccelli sono
specialisti di comunicazione a distanza in biotopi chiusi che non
consentono  sufficiente visibilità (boschi o foreste), e conseguentemente
essi si sono perfezionati nella comunicazione acustica”. E’ la stessa
comunicazione che la “voce” del poeta riesce a realizzare in un microcosmo
ormai chiuso e isolato, di visibilità insufficiente: la città.
Ma la poesia di Ruffato non è solo suono e ritmo, perché forte è la sua
presenza e il radicamento nella realtà che circonda, opprime e ferisce il
poeta (come la morte prematura della figlia). Nel descrivere fatti,
eventi, accadimenti egli rifiuta la lingua ‘pura’ della poesia: il suo dialetto
padovano “rappresenta una sorta di contenitore reale, corrispondente a
una concreta esperienza comunicativa, di quella sperimentazione
plurilinguistica” (Francesco Zambon) da lui condotta nell’arco della
lunga produzione poetica.
Lo “sguardo al margine” accompagna il lettore attento ad attraversare
le microstorie oblique, i cui versi hanno un andamento centripeto: nel
caos della scrittura - segni criptici, fantastici, dispersi sulla
volubile sabbia; o geroglifici incisi sull’acerbo e orgoglioso ebano;
come gravures secche e sapienti che traspaiono dal fondo - l’intenzione
del poeta è quella di conseguire un ordine (non l’Ordine) seguendo un
percorso a spirale rovesciata: dal margine al centro. Il colloquio con
i testi di Ruffato è difficile: una poesia ‘insofferente’ delle regole
della buona, piana , piacevole lettura. Questo perché l’autore sembra
rivendicare con forza il diritto di essere “oscuro”; senza però che l’oscurità
diventi un banale gioco a nascondersi dietro fumose cortine di Nulla.
Per altro il lettore non deve desistere di fronte alla oscurità: deve
penetrarla sino in fondo e ‘comprenderla’ nelle sue sfolgoranti forme.
E’ già stato indicato il rischio che si corre facendo ricorso al dialetto
come unica e squisita “lingua della poesia”: quello di una afasica
circolazione della stessa tra pochi (una poesia come cult). Inoltre lo
spericolato sperimentalismo di Ruffato può lasciare intendere come il poeta
desideri “giocare con la parola come si gioca con una bambola” . Così
non è, perché il rischio della sperimentazione viene fugato in quanto
dentro il verso trovi la realtà della prosa, ai livelli dell’impoetico
contemporaneo - la contaminazione con ciò che non è ‘poetico’-.
Nel risvolto di copertina di Scribendi licentia si legge: “I testi hanno
come lingua di base il dialetto di Padova nella viva parlata quotidiana,
ma frequentemente sollecitato e reinventato dal sogno sulla traccia di
lacerti infantili e con volontari sbandamenti nell’italiano e in vari
linguaggi settoriali. Comunque è sempre sottesa la ricerca di intensità
espressiva con svariati registri di senso e intenti di ri-creazione”.
Nella scrittura poetica di Ruffato l’opposizione non è tra passato e
presente (la nostalgia di una Padova d’antan, tra l’Io che ricorda e la società
attuale che lo circonda); perché il poeta ha sempre coscienza del pericolo
di essere costretto nell’solamento di una minoranza linguistica. E se ciò
non accade - come nel caso di chi chiede, con ironica umiltà , “licenza di
scrivere” - allora si raggiunge (al di là e al di sopra di giochi
funambolici con le parole) il livello alto della poesia.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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