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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche

Alberto Pellegatta, Mattinata larga
di Giovanna Frene

Alberto Pellegatta, Mattinata larga
Lietocollelibri, Parè/Faloppio (CO), 1ª ed. 2001, pp. 38, euro 10


Non è facile parlare di quest’opera prima del milanese Alberto Pellegatta, e non solo perché la giovanissima età del poeta (nato nel capoluogo lombardo nel 1978) vieta assolutamente di imbrigliare a quest’altezza cronologica il suo lampante talento poetico, ma anche perché si sarebbe tentati di squadernare uno dopo l’altra, al contrario, tutte le ascendenze che saltano agli occhi durante la lettura, senza che nessuna di queste tuttavia soddisfi pienamente nel circoscrivere lo stile. Sembra come ripetersi quello che Ungaretti disse del giovane Zanzotto: ossia che questa poesia sembra essersi fatta da sé, che è poi in qualche modo quanto asserisce Maurizio Cucchi nella prefazione al libro: «(…) Una qualità essenziale (…) è nella coincidenza tra sensibilità e linguaggio, tra intelligenza delle cose e modo di esprimerla. (…) Alberto Pellegatta ha letto quanto c’era da leggere, della poesia del nostro tempo. Ha assorbito ogni cosa, ma non se ne è fatto influenzare, tanto è vero che è difficile (…) inquadrarlo in qualche modo. Eppure, nelle volute energiche del suo stile mi sembra di individuare qualcosa di originale e inedito che viene dalla nuova poesia, quella dei ragazzi nati negli anni Settanta (…)». E infatti Pellegatta è l’autore più giovane presente nell’antologia I poeti di vent’anni, curata tre anni fa da Santagostini, il quale si sbilancia parlando di un «possibile erede dell’espressionismo stilistico» lombardo (Lucini, Rebora, Tessa), ma nel cui peculiare «disordine mentale e linguistico» sembra nascere una situazione nuova di straniamento e depistaggio semantici, ben più forte della «normalizzazione» data dalla «nitidezza del [suo] dettato».

Spingendo ancora altre l’idea di indecidibilità semantica, la cifra nuova che sottende lo stile di questa poesia è riscontrabile nell’inversione logica, nel capovolgimento, reale e metaforico, della realtà del/nel corpo. Sembra che l’esperienza funzioni a rovescio, a ritroso, e come l’esperienza anche la lingua poetica, che essendone conseguenza, ricalca le sue stesse orme, in una forma davvero peculiare di rappresentazione della realtà, che ha la discontinuità del presente («l’attualità è intermittente / come un’immagine rotta», p. 3). Si prenda questo epigramma, riportato per intero: «Una lingua attenta, stupita / si versa nella gola come un prodigio. / Scrivendoci si frantuma. Ma sulle mani / lascia tracce di polvere brillante. / E gli occhi sono pezzi di vetro» (p. 7). Il testo da solo rende perfettamente la consistenza insieme onirico-meravigliosa, ma allo stesso tempo fisico-sensuale, dell’evento. Senza mezzi termini, è la lingua poetica, razionale ed erotica nel suo connubio con il reale, da cui proviene, che fa essere scrittura il corpo, che fa essere scrivente il poeta, che fa essere scritta la poesia: nella frantumazione – intesa però come immediata percezione di una ricomposizione della luce-parola sul foglio. È un concetto questo che deve essere caro al poeta, tanto è vero che viene ripetuto altre volte, e in maniera quasi uguale: «Una voce intermittente, una tentazione forse / si versa nella gola come un liquore antico. Si accende / un tono fragile nell’aria» (p. 9); «La luce mansueta del giorno / ti bagna le pupille e accende / sopra i rami grappoli di perle. / Versa nella gola voci intermittenti» (p. 21); «Ma c’è un sapore dolcissimo / che ci cola sulle labbra / e ammorbidisce il giorno» (p. 22); «Nella conchiglia quindi / ho ascoltato riposare il respiro / e un calore mi è salito alle labbra» (p. 24); «Mi alzo e ripercorro il corridoio al contrario. Buio tunnel: quasi bacio» (p. 26).

Questa lingua, che prima di farsi parola scritta, ha attraversato tutta la realtà vivibile, è la «precisa espressione delle cose / che si impone» (p. 4), però sempre in maniera armonica, si direbbe musicale, contrappuntistica, con il tutto del mondo, natura e cultura (città). Questi due poli sono i limiti dell’oscillazione dell’esperienza, i modi opposti con cui l’esperienza si fa; vegetazione e città diventano continui riferimenti analogici per la vitalità del soggetto, non nel senso di una antropomorfizzazione della natura o delle cose, ma nel senso di una promanazione del soggetto dalla sostanza di queste, rilevata come un sismografo appunto dalla poesia, una poesia felice perché tale appare la realtà giovane: «il respiro (…) sale come l’edera il silenzio» (p. 4); «una pianura possibile / che si espande negli occhi come lacrima opaca» (p. 5); «come una immensa tenerezza, / gonfia di case alla rinfusa e di facce contente» (p. 5); «ti confeziono un pacchetto di spazio sicuro / di presentimenti verdi» (p. 6); «Come tremula / tenerezza sei nelle pupille, colla carezza / del ricordo e il desiderio, la simpatia / delle foglie sottili, come l’erba / secca sotto i passi» (p. 6); «Le cose, sottili come foglie, perdono i contorni / nelle parole appena biascicate. Sapori / di menta nei giardini» (p. 11); «Procediamo lentamente nell’appetito largo / come comprendendo i sapori delle panche» (p. 17); «Si infiammano / i vetri anche dentro le imposte. Crepitano / i raggi in tutte le direzioni, alcuni si spezzano» (p. 17); «Pare / un immenso pascolo rosato e azzurro, / uno stagno, un paesaggio / quando il ciclista incede contromano sul ponte / col suo cappotto largo, sotto l’orizzonte / e i bambini giocano un calma serale / progredendo sui pattini a rotelle» (p. 17); «Il vento è un liquido ventre / e il parto è musicale, trasparente» (p. 22). E l’elenco potrebbe continuare, arricchendosi ancora di nuove bellissime sinestesie. 

L’altro aspetto, opposto a questo ridente e verde adesso della lingua, è la memoria (strano a dirsi, per un poeta così giovane). La memoria apre e chiude questo libro: «La memoria ha stanze immense / camere colme di spechi / polvere impraticabile» (p. 3), e «Non bacio e non bocca. Non sento / più quel gusto di cannella bugiarda / e il tuo viso come cera si è sciolto» (p. 28). Ma appunto a causa della giovinezza, questo negativo necessario della vita non lo è in senso passivo, ma in senso attivo, proprio come la parte oscura delle nubi notturne, che non si vede, ha la sua ragione di essere nella pur tenue ma reale illuminazione, invisibile, della luna. E qui ritorna in mente Celan, quando scriveva che non si deve togliere alle parole la loro ombra, mai.
 

8 luglio 2003 
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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