Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche
 

La poesia di Pier Paolo Pasolini
di Franco Romanò

Passato il momento di demonizzazione del personaggio e poi della sua altrettanto sospetta esaltazione, Pasolini gode da un po' dei tempo di una relativa calma che spero favorisca la ripresa di una riflessione critica; il mio contributo in questa direzione va verso la sua poesia.

La produzione poetica pasoliniana copre l'intero arco della sua vita ed è vastissima. La prima parte è dominata dalle opere in dialetto friulano: da Poesie a Casarsa che è del 1942 fino a La meglio gioventù del 1954. E' il Pasolini che tutti amano e quello su cui la critica è sempre stata unanime, fino ad attribuirgli il merito di avere rilanciato la poesia dialettale in Italia. Che Pasolini le abbia ridato rango e valore è vero; non va dimenticato che la poesia dialettale è stata un oggetto di attento studio critico da parte del poeta, dalla fondazione, insieme a Nico Naldini e altri dell'Academiuta de lengua furlana, fino alla pubblicazione, nel 52, di un libro sulla poesia dialettale del 900. 

Senza nulla togliere al valore poetico di queste raccolte e ai saggi che ho citato, ritengo tuttavia che tale incondizionato elogio sia anche un modo per mettere la sordina alla poesia successiva. Dico senza nulla togliere perché le due raccolte citate sono certamente un esempio di alta poesia lirica, di elegia non letteraria.

La poetica in cui sono immerse le due opere citate è ancora quella dell'ermetismo, ma l'uso di una lingua solo orale come quella friulana a ovest del Tagliamento, conferisce all'opera un valore altamente sperimentale. Quanto ai temi e all'atmosfera di queste liriche si può dire che il Pasolini di Casarsa non ha ancora conosciuto il male del mondo, l'ombra; la poesia riflette, così, uno stato di innocenza vera, pura, non letteraria, la stessa che si avverte anche in Sandro Penna. Solo successivamente il mondo di Casarsa diventerà mito e al tempo stesso stimolo per la ricerca di un universo arcaico dentro le maglie della modernità: è un mondo che Pasolini cercherà e penserà di trovare (quasi sempre deluso), prima nelle borgate romane, poi alle Mura di Sanaa, in Africa e in India, infine nell'immaginario dei suoi film, specialmente in quelli più rivolti al passato: a cominciare dalla Trilogia dell'amore, ma anche nel Vangelo secondo Matteo. L'incanto che pervade le poesie di Casarsa è quello della fiducia primaria, quella che si ha per la madre. Il darsi del male proprio nel luogo dell'Eden, prima con la tragica morte del fratello, poi con l'accusa di omosessualità e l'espulsione dal PCI, sarà come ben sappiamo il trauma che segnerà tutta la vita di Pasolini. Quel mito dell'innocenza e la ferita del tradimento, ferita che non si rimarginerà mai, verrà rielaborato dal poeta in mille modi; ma in altre lingue. 

Il Pasolini in lingua italiana esordisce nel pieno del dibattito letterario del tempo, in un momento cruciale del dopoguerra. Il neorealismo, che peraltro aveva dato poco in poesia, si era ormai esaurito anche in narrativa; durerà di più nel cinema, aprendo le porte alla commedia all'italiana. Pasolini non rifiuta del realismo i suoi elementi popolari e anche populisti e la tensione etica e civile di cui è portatore; rifiuta la sua angustia ideologica. Tuttavia se si legge il suo famoso 'Scherzo Shakespeariano', in cui almeno nella parte iniziale rifà il verso al famoso discorso di Marco Antonio in morte di Giulio Cesare, si potrà constatare come egli non buttasse via i contenuti drammatici ed epici di quell'esperienza, ma rimproverasse semmai una certa acquiescenza successiva da parte di alcuni suoi protagonisti all'andazzo dei tempi; anzi, in quel testo, sembra proprio attribuire a tale accomodamento la fine del neorealismo stesso.

Quando Pasolini sta per esordire come poeta in lingua italiana le figure dominanti sono quelle di Quasimodo, Ungaretti e Montale, ma è la poetica dell'ermetismo a occupare ancora la scena. Altri protagonisti come Bertolucci, Caproni e Luzi sono più defilati, mentre la nascente Linea Lombarda non sarà mai vista da Pasolini come un'alternativa credibile alla poetica ermetica. 

Pasolini entra nell'agone con idee molto chiare per quanto riguarda la pars destruens: la necessità di superare l'ermetismo, ma anche il petrarchismo, di cui peraltro l'ermetismo è espressione. Pasolini è il primo a parlare di pluringuismo, di contaminazioni fra registri alti e bassi; guarda al Dante dell'invettiva, alle commistioni fra lingua letteraria e lingua popolare. Sulla rivista Officina, da lui diretta insieme a Fortini, Roversi, Romanò, Leonetti, esordiscono Sanguineti e Pagliarani e altri che daranno poi vita al gruppo 63 e alla neo avanguardia italiana, da cui Pasolini prenderà aspramente le distanze: memorabili saranno le dure polemiche con Sanguineti. Il rapporto con l'avanguardia, però, non sarà mai del tutto risolto né nel Pasolini poeta, né nel critico, anche perché fu proprio lui il primo a parlare della necessità di un neo avanguardismo, espressione che successivamente sentirà in qualche modo ritorcersi contro di lui. Questo rapporto conflittuale e complesso e non risolto è a mio avviso un limite che influenzerà negativamente la sua ricerca poetica, pur nella convinzione che il suo rifiuto dell'iconoclastia neo avanguardista fosse in Pasolini dominante, nonostante le suggestioni che lo sperimentalismo più estremo esercitava anche su di lui. 

Il problema è che le ragioni che spingevano Pasolini a superare l'ermetismo, erano al fondo diverse da quelle che ispiravano Sanguineti e tutto il gruppo 63. Lo testimoniano sia gli scritti teorici, La libertà stilistica, per esempio, un saggio pubblicato proprio su Officina; ma anche la sua prima opera pubblicata in lingua italiana, proprio 'Le ceneri di Gramsci', (1957), che restano uno dei vertici dell'opera poetica, insieme a La religione del mio tempo e in parte anche Poesia in forma di rosa che è del 1961.

Nel saggio ricordato, l'idea di sperimentalismo che viene avanzata è quella di una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura e nello spirito. E' un nuovo orizzonte culturale quello che Pasolini auspica e non semplicemente il rinnovamento della lingua della poesia; nel dire questo, egli pone per primo la necessità di uscire dal Novecento. Questo a me pare un punto di irriducibile differenza con la neo avanguardia; che, specialmente con il Gruppo 63, vedrà invece nello scardinamento del codice linguistico il modo stesso del rinnovamento, arrivando a stabilire un'astrusa equazione, almeno per me, fra eversione poetica ed eversione sociale. Naturalmente dietro questa ipotesi ci stavano lo strutturalismo, la semiologia, un certo marxismo.

Quanto a 'Le ceneri di Gramsci' e 'La religione del mio tempo', anch'essi sono un esempio della distanza che lo separava dalla sperimentazione neo avanguardista. Gli elementi salienti di differenziazione mi paiono tre: la scelta poematica, la materia epica seppure spuria (dirò poi in che senso), il corto circuito fra scelta metrico stilistica improntata a un forte legame con la tradizione (la terzina dantesca, l'endecasillabo) e un lessico popolare non aulico nel quale viene recuperato tutto il meglio anche del realismo; l'assenza in Pasolini di ogni intento volto allo scardinamento sintattico della lingua e ad un'esaltazione pirotecnica del significante. La valenza sperimentale, invece, si colloca proprio al livello in cui Pasolini la voleva: un rinnovamento dello spirito che indicasse un orizzonte culturale nuovo rispetto a quello in cui erano nati l'ermetismo in periodo fascista e il neorealismo nel dopoguerra. 

Dicevo che nonostante gli elementi spuri a me pare che le due opere che ho citato e in parte anche Poesia in forma di rosa siano da riportare al genere epico. Mi rendo conto di fare un'affermazione forte e contro corrente rispetto al parere di molti critici, ma a me sembra del tutto legittimo porre tale questione e sollevare al tempo stesso una polemica forse anche più importante e che riguarda proprio la negazione dell'epica e i perché di tale negazione. 

Poemi epici, quelli di Pasolini, sia per la materia (la storia, la società, la condizione della comunità e non importa, a questo proposito, che egli presentisse la fine di questa storia e ne vivesse la tragicità), sia per le scelte metriche; spuri perché segnati in contro canto da una memoria soggettiva interiore, quasi intimista (quello che è stato definito un canzoniere intimo alla Machado), che sono estranei al genere epico per come lo conosciamo se manteniamo ferma nel tempo la definizione stessa di epica. 

Chi ha detto che il genere epico non possa assumere al proprio interno contenuti e forme che non gli appartenevano all'origine? La stessa poesia lirica si è rivolta a temi che non le erano tradizionali. E poi non bisogna dimenticare che per Pasolini ciò che altri potevano leggere come elementi di un canzoniere intimo, venivano da lui considerati in ben altro modo. Per lui la condizione di omosessuale e poeta escluso non è l'irruzione nella partitura della grande storia di un elemento di biografismo, o non è semplicemente questo (se mai lo diventa nei momenti di caduta della sua poesia, che non mancano certamente ma che non intaccano il discorso generale), ma la metafora di una più generale emarginazione dei popoli del terzo mondo; a cominciare dai borgatari romani, dei sotto proletari ecc. ecc. 

Discutibile o meno che sia tale convinzione, il punto di vista soggettivo che Pasolini introduce in contro canto non ha nulla a che vedere a mio avviso con un recupero dell'io poetico forte, biografico dell'artista. Pur non negando che cadute intimiste vi siano, come anche elementi spuri di biografismo, tuttavia la tensione che anima queste opere rimane di natura squisitamente epica. 

Del resto Pasolini non è l'unico ad avere portato temi nuovi all'interno di una partitura epica. Quando morì Bertolucci, su un quotidiano a tiratura nazionale uscì un lungo articolo, non ricordo di chi, in cui si diceva addirittura che Bertolucci aveva avuto il grande merito di salvaguardare il genere epico e di averlo messo al riparo dalla totale cancellazione. Non condivido quel giudizio perché a me pare che la poesia epica goda di buona salute, anche indipendentemente dal poeta parmense: Pavese, Bellintani, Calabrò, la ripresa epico mitica in poeti come Conte a partire dalla fine degli anni 70; ma sono molti di più. Ho ricordato Bertolucci per una ragione strettamente connessa al discorso su Pasolini: il poeta parmense fu fra i primi a immettere temi come la nevrosi (ma io preferisco parlare di romanzo psicanalitico) nelle sue opere e anche la nevrosi è un tema nuovo che può entrare a pieno titolo in un'opera epica. Se questo può valere per Bertolucci non si vede perché non possa valere anche per quel il canzoniere pasoliniano, almeno finché questi elementi che io stesso ho definito spuri non diventano sempre più intimisti come accade sempre di più in Poesia in forma di rosa. Anche perché Pasolini cercò di coniugare coscientemente Marx e Freud, le ragioni cosiddette oggettive della storia con la realtà delle pulsioni.

C'è infine un elemento di cui vorrei parlare e che mi dà modo di affrontare l'ultima parte della sua produzione poetica. L'ho lasciato per ultimo perché in questo Pasolini è stato davvero un caso unico nel secondo dopoguerra, per gli artisti della sua generazione: parlo della sua irriducibile anti modernità e per la ricerca di mondi arcaici che lo portavano sempre più lontano dall'Occidente. Per anti modernità costituzionale intendo poi anche il fatto che Pasolini non ha mai introiettato l'idea della fine del mandato, per usare un'espressione di Berardinelli; cioè la convinzione che nella società moderna al poeta non spettasse più il compito di rappresentare la voce profonda di un'epoca, di un popolo. Questo mandato Pasolini lo ha conservato e praticato in pieno, si è posto senza remore e vergogne come un mètre a penser in quanto artista e poeta. Un altro aspetto altrettanto importante della sua anti modernità è l'avere inseguito un'idea di opera totale, attraversando tutti i mezzi espressivi per approdare anche al cinema, certamente il più moderno di tutti, ma sempre in un'ottica che definirei leonardesca e dunque premoderna, lontana dalla parcellizzazione del sapere che è invece un processo che ha coinvolto le arti e le scienze. 

La sua non accettazione del moderno, che in alcuni momenti è viziata da un volontarismo che può apparire ingenuo, ne fa un autore secondo me lontano da un altro cliché che gli è stato indebitamente attaccato addosso: quello di essere un maledetto. C'è in lui troppo senso di colpa da un lato e troppo scandalo per la tragicità della secolarizzazione, di quella che chiama la fine della storia, per esserlo. Nel maledetto, almeno in quello moderno che ha in Rimbaud il padre (Rimbaud che sia detto fra parentesi Pasolini non amava), c'è sempre il disincanto, mentre in Pasolini c'è il dolore mai risolto, la ferita aperta che non si chiude mai. Di questo risentirà sempre la sua poesia, anche come limite, ma l'estetica del disincanto che poi finirà di passo in passo nel nichilismo non lo attirerà mai, neppure nei momenti più narcisistici che pure non mancano. Il maledetto moderno è un dandy disincantato che vive sulla scissione della personalità. I grandi maledetti della contemporaneità sono in fondo i tecnocrati, gli gnomi della finanza, quelli che si travestono dal giovedì sera alla domenica da maledetti, ma che rientrano nell'ordine (anzi ne sono le colonne) ogni lunedì.

Rispetto a questa irriducibile anti modernità è pur vero che nella parte finale della sua vita Pasolini si sentiva sconfitto ed era giunto alla convinzione che la sua disperata vitalità non bastasse più. Vedeva i suoi amici intellettuali e gli altri poeti prede di una deriva inarrestabile, vedeva l'omologazione venire avanti senza contrasti. E' il periodo più oscuro della sua produzione poetica, quello in cui sembra arrendersi. E la fa con due opere e due movimenti in apparenza disgiunti, ma in realtà convergenti in un unico punto di caduta, che inizia a mio avviso da Poesia in forma di rosa, dopo il poema Guinea. 

Con Trasumanar e organizzar Pasolini cede retrospettivamente alle ragioni della neo avanguardia che pure aveva così aspramente combattuto. In quest'opera l'impoetico, l'estetica del brutto, il verso libero senza misura, quasi con un'esibizione, come se stesse dicendo alla neo avanguardia, vedete che se voglio queste cose le so fare anch'io, tutto questo mi sembra segnare il suo declino in lingua italiana. 

Il secondo movimento lo riporta al dialetto friulano. 

Apparentemente si tratta di due direzioni diverse: l'una tutta dentro quella modernità che aveva criticato, la seconda volta alla riscoperta di un universo statico, tradizionale e in qualche modo premoderno. Ma guadiamole più da vicino. Il Pasolini che si sente sconfitto in lingua italiana ritorna al dialetto come si ritorna regressivamente all'utero materno. E infatti La nuova gioventù, pubblicata nel 75 pochi mesi prima della morte, è un ricamo manierista intorno alle due opere dialettali del suo esordio. 

Pasolini era convinto, a torto, che la sua fosse stata una battaglia perduta. Forse era davvero conclusa la sua parabola artistica, questo sì! E del resto se si guarda a quello che aveva fatto in così pochi anni, c'è da rimanere ammirati. Era pure vero che all'interno di quella vicenda del dopoguerra Pasolini aveva dato fondo a tutte le risorse a sua disposizione per contrastare la logica dei tempi; anche se tutto questo è comprensibile, tuttavia vi è un fondo oscuro nella parte finale della sua vita artistica, quasi una metafora, il presentimento di una fine tragica. Se Pasolini fosse vissuto almeno fino al 1979, avrebbe visto che le secche in cui tutto sembrava essere precipitato nella poesia italiana erano un momento precedente un nuovo giro della ruota. A partire da Parola innamorata ma anche da altre antologie di quegli anni stava nascendo una nuova generazioni di poeti e con alcuni di loro credo che Pasolini avrebbe potuto continuare a parlare e a dialogare, riconoscendo, almeno nelle intenzioni espresse, qualcosa che aveva animato profondamente la sua tensione artistica e la sua ricerca.
 

19 aprile 2003 Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


Per informazioni, si prega contattare la direzione