Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche
 

Gabriella Fantato, Enigma - Ventidue invocazioni
di Alfredo Rienzi


Gabriela Fantato, Enigma – Ventidue invocazioni

Dialogolibri, Olgiate Comasco, 2000

Se si affrontasse la lettura di questa plaquette della Fantato predisponendosi, comprensibilmente, vista la forza connotante dei titoli, a privilegiare la ricerca degli aspetti tematici di riferimento, potrebbe derivarne, come prima impressione, soprattutto un senso di incompletezza, di mancanza, di vacatio.

Ben presto si scopre, però, che questo smarrimento, è esattamente ciò che l’autrice intende provocare nel lettore, progettando e plasmando un percorso dove troppi snodi, troppi indizi, mancano o, meglio, vengono lasciati dislocati su piani non direttamente (e non facilmente) accessibili.

E’ un meccanismo che solo semplicisticamente si può assimilare ad un eccesso di rimandi del cosiddetto (presumibile) referente.

La sequenza dei “rimandi” è già ben dichiarata, per il versante artistico, nella nota introduttiva della autrice.

I suoi versi, infatti, costituiscono parte vitalizzata e vitalizzante di uno spettacolo anche pittorico/scenografico e musicale e traggono ispirazione dai disegni dei XXII Arcani Maggiori dei Tarocchi, realizzati da Coca Frigerio, ispiratosi a sua volta ad una corrispondente serie di ventidue realizzazioni scultoree.

Non basta, perché, cresta di congiunzione tra il versante artistico e quello filosofico-dottrinale, le ventidue sculture collocate nel Sacro Bosco di Bomarzo, voluto dal principe Vicino Orsini nella seconda metà del Cinquecento, sono esse stesse, dichiaratamente, interpretazione artistico-simbolica dei ventidue Arcani Maggiori o Trionfi dei Tarocchi che, e ci avviamo al capolinea, cripticamente racchiudono (altro che svelare!) le profonde dottrine che lastricano i ventidue sentieri dell’Albero della Vita cabalistico. E’ noto che questi sentieri o canali (Cineroth), che collegano le dieci Sfere (Sephiroth), sono, a loro volta, immagine riflessa, indizio, traccia del percorso macro e microcosmico che costituisce e compie al contempo la Manifestazione, o Emanazione, Divina. HHHHHHH

Nel dubbio di non essere stato abbastanza complicati, bisogna ancora considerare che questa rappresentazione simbolica del Creato, “è” nella misura in cui “è stata tramandata” dalla Tradizione ebraica, che arricchisce e complica con una ulteriore serie di corrispondenze simboliche (cui “non ci può esser fine”, secondo la nota cabalista Dion Fortune, ne La Cabala Mistica), i ventidue Cineroth e le dieci Sephirot, che, inoltre, si ripetono nei quattro mondi o “livelli della manifestazione” (Archetipale o della Divinità pura, della Creazione o degli Arcangeli, della Formazione o Angelico e, più “lontano” dal Principio, il Mondo della Materia o dell’Azione).

Le corrispondenze più significative sarebbero, incrociando l’interpretazione con la lettura dell’incipit del Vangelo di Giovanni (In principio era il Verbo ... tutto fu fatto per mezzo di Lui...) quelle con le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, strumento agente del Logos.

Una corrispondenza che la Fantato rende inevitabile da richiamare, per la forza stessa insita nel termine “invocazione”, è quelle con le “entità” (i dieci Nomi Divini, Arcangeli, schiere angeliche, forze cosmiche e planetarie) che trovano sull’Albero Sephirotico collocazione tanto precisa quanto, in qualche modo, imperscrutabile ed inquietante.

Non sono noti con certezza nè l’origine dei Tarocchi né i loro rapporti storici con il divenire (bisognerebbe dire col mantenersi) della Tradizione ebraico-cabalistica, i cui pilastri sono l’Antico Testamento, “corpo” della Tradizione, che, secondo un noto detto Rabbinico, reca profitto agli ignoranti, Talmud, “anima razionale” che possono studiare gli uomini colti e Cabala “spirito immortale” su cui meditano i saggi.

Fatto è, comunque, che in qualche modo i Tarocchi hanno finito per assumere una propria visibilità, io dico esagerata e, in quanto “sradicati” dall’Albero della Tradizione, distorta.

Il proliferarre di diverse serie di rappresentazioni iconogafiche (esistono molte serie dei ventidue Trionfi o Arcani Maggiori, mentre i Minori si sono cristallizzati nelle comuni carte da gioco divise nei 4 semi o colori) se, da un lato, ha rispettato, sostanzialmente le corrispondenze con le Figure originarie, nella forma ha richiamato e stimolato, le attenzioni di varia umanità, non ultimi, evidentemente scultori e pittori.

Non è opportuno, per sede e spazio, dilungarsi ancora in questa ricognizione sugli ambiti extra-artistici che informano, le ventidue invocazioni della Fantato. Non è opportuno anche e soprattutto perché i testi non risulterebbero illuminati e vitalizzati da un’indagine squilibrata nel rapporto tra referente e modalità espressive.

Anzi, uno degli aspetti più interessanti della lettura della silloge sta proprio nello smascherare il depistaggio, lucido e consapevole, dell’Autrice, la quale mostra subito di non seguire percorsi obbligati, limitazioni didascaliche, coazioni dottrinali, per altro impensabili trovandoci qui nel regno del Simbolismo, che per definizione non può che prevedere libere e soggettive interpretazioni e compenetrazioni, spesso neppure “esprimibili o comunicabili”, come magistralmente descritto ne Il gioco delle perle di vetro da Hesse quando narra dell’ “odore del sambuco”.

Quali mezzi usa la Fantato per dichiarare il proprio tragitto “oltre” il titolo o almeno “altrove” da esso?

A mio avviso tre aspetti tecnici meritano di essere colti e sottolineati, prima delle peculiarità formali di cui cercherò di dire più oltre.

La prima ma netta presa di distanza dal referente a favore del testo poetico sta nella titolazione stessa dei componimenti: l’Arcano, nelle rispettive liriche è, sì, oggetto, ma è citato, e tra parentesi, solo a pie’ di pagina. Il titolo è patrimonio esclusivo dell’invenzione poetica, autonoma, sovrana e dominante dalla e sullo schema dottrinario.

Il secondo artifizio, non è dato di sapere quanto influenzato dalle geniture scultoree e pittoriche su riferite, ma comunque fatto proprio e quindi, a tutti gli effetti, carne viva del corpo testuale, è che l’ordine di apparizione delle Figure è del tutto anarchico rispetto alla numerazione canonica degli Arcani ed al corrispondente sviluppo dei sentieri sull’Albero. Cioè, per chiarire ogni dubbio, ogni sospetto di didascalismo, l’autrice “mischia il mazzo” dei Tarocchi e li distribuisce in ordine sparso, secondo un suo atto creativo. Comincia dal 10° (la Ruota), prosegue con il 18° (la Luna), il 9°(l’Eremita), il 12°, eccetera, chiudendo con il Matto (tradizionalmente non numerato, zero, che corrisponde al primo sentiero o canale, tra Kether – Corona e Cochman – Saggezza).

Un terzo ulteriore elemento straniante si incide tra la dichiarazione di realizzare “invocazioni” ed uno sviluppo figurativo e sintattico che non sembra apparantamente tenerne conto. Infatti, in nessuna delle liriche, si riscontra un vocativo, sintattico e/o di modo, (tralasciamo i distinguo, sostanziali, ma non opportuni in questa sede tra evocazioni ed invocazioni), anzi predomina una defilata, distanziante, narrazione in terza persona, ma con la incisività del tempo presente, salvo rare eccezioni: “doveva restare appeso / là, nel mondo cavo del non dire” (colui che attende – l’Appeso), “alta si ergeva in cielo, ritta a sfida" (la caduta – La Torre));

Se tali sono, a chi o che cosa, quindi, sono destinate queste ventidue invocazioni? 

Per ora questa è solo una domanda, cui spero alla fine di dare una possibile risposta.

Avendo così connotato i ventidue Arcani Maggiori più come occasione che come ambito di riferimento, per quanto fortemente definito e programmatico e, al tempo stesso, avendone percepito le deroghe, le libertà, la sua funzione di sfondo più che di trama, si può concludere questo primo approccio affermando che il rischio di un sacrificio della parola al concetto, dell’invenzione al rigore descrittivo viene non solo evitato, ma nemmeno rischiato, per quanto il liminare tra pensiero e immagine appaia in parecchie liriche l’areale privilegiato della parola di Enigma.

Affrontando dunque più da presso i testi, si coglie come il verso resti, per usare l’occhio acuto di Giancarlo Pontiggia nella nota critica in postfazione, “il centro ispirativo e modulare dell’ispirazione: soglia del pensare e confine del dire “ e formula “della tensione immaginosa (dell’Autrice) che non disdegna tuttavia lo scatto didascalico, l’ingiunzione realistica” resa, come evidenzia Luigi Picchi (La Clessidra, 2/2001, pag. 122) con “versi gnomici solenni e inoppugnabili”:

“se perdi la via retta scopri l’eterno andare / che tutto il mondo affatica / dal sasso inerte al volo e la farfalla” (uno sguardo obliquo – il Diavolo)

“in bilico nel centro esita / che del troppo cerca misura / chi indugia in ombra a sole alto”  (l’ordine naturale – la Giustizia)

“solo infiniti errori aprono a conoscenza / solo il dolore segna il passaggio” (oltre il velo – il Sole)

se un ordine eterno guida / del tutto il divenire, essere e perire / non può l’umano scorgerlo, né tenta d’interrogarlo (il ciclo naturale – l’Imperatore)

E’ chiaro che, una volta affermata la propria autonomia poetica, sulla trama versale viene comunque a spandersi potentemente la luce, soggettivizzata, interiorizzata, del grande sistema simbolico di riferimento, secondo alcuni il più profondo ed elevato (non è un ossimoro) dei sistemi di pensiero tradizionale dell’Occidente, non estraneo a Pitagora, Platone ed ai neoplatonici, in particolare Plotino, al Cristianesimo esoterico ed alla Gnosi.

Ma in non rari versi si libra e si libera totalmente l’immaginatività, la visionarietà leggera e sognante:

“scolpita nella terra, segnata con il vento / (legge tra attorte rocce e d’erbe odori / il filo del sogno..)” (un tempo circolare – l’Eremita)

“di doppia vita è venire a luce / e darsi al vento in terre non scelte / mai sapute, lasciate e amate” (doppio su sfondo – la Morte o del rinnovamento)

“in volo sta la farfalla, in terra / è l’acqua immota e il mondo intero bagna / i fiori e le piante irrora” ( un segno ci tiene – le Stelle)

Risaltano immediatamente, già in questi pochi versi, le peculiarità formali che la Fantato, poetessa che ha già dato, nella sua attività creativa e critica, numerosi segni di grande consapevolezza e proprietà del mezzo poetico, ha scientemente scelto per la propria rappresentazione.

Difficile dire, a proposito, meglio di Pontiggia: “se l’attitudine è manieristica, in simbiosi con le sue fonti visive, la sintassi non ignora moduli classicistici, come l’inversione, il lessico alto e storicamente stratificato; le anafore, anche strofiche....; le ricercate allitterazioni dei suoni.”

Certamente il manierismo più appariscente, impiegato rigorosamente in tutti i componimenti, é il ricorso ampio alle parentesi; in due liriche (“notturna” e “uno sguardo obliquo”) è (quasi) prevalente il testo in parentesi. 

Altrettanto evidente ma, a mio avviso, particolarmente funzionale, è l’uso di inversioni che, creano spesso un senso di sospensione, di attesa, di ulteriore distanza dall’(in)identificazione del Simbolo in oggetto e dal suo manifestarsi agente (“dal fiore rosso coglie / quel gran segreto...”.; “misura dell’andare è il volo / che accoglie del domani il riflesso / ..”.; “non della luce il raggio va inseguendo / ..”.; “quando la terra custodiva / di sacra forza il fuoco, d’antica madre grembo )”

I lemmi, virtualmente sinonimici, “mondo” e “terra” (sempre in minuscolo: le uniche due maiuscole della raccolta, nomi degli Arcani a parte, sono Luna ed Uno) sono i più frequenti, e si impongono per l’alto valore semantico, che rivestono in assoluto ed ancor più nel contesto cosmogonico particolare di cui si tratta.

Se “terra” viene impiegata prevalentemente come “suolo, terreno” (“da terra verso il vento”; “sapienza scolpita nella terra, segnata con il vento”; “sottile s’apre la ferita/ a mordere la terra e in basso la rovina”; “a terra tiene stretta ogni pianta”; etc) inequivocabile è l’accezione più cosmica di “mondo” come nei versi, già citati, che accomuna:

“in volo sta la farfalla, in terra / è l’acqua immota e il mondo intero bagna / i fiori e le piante irrora”

( un segno ci tiene – le Stelle)

 

Il “Mondo”, come unitaria Manifestazione della involuzione, dal Principio alla materia, (la Caduta biblica) e di evoluzione, in senso opposto “ascendente”, come unità speculare di macro e microcosmo, è ben rischiarato dai versi della Fantato che, cita in epigrafe, non a caso, il celebre assioma ermetico della Tabula Smaragdina (“quello che sta sotto è come quello che sta sopra / quello che sta sopra é come quello che sta sotto”).

Sembra quasi, con la libertà del lettore, oltre a quella intuitiva della scrittrice, di poter leggere l’intero divenire della Manifestazione lungo i sentieri, dove da tempi immemori sono incise le idee che iconograficamente e simbolicamente gli Arcani racchiudono.

Partendo, in via discendente, addirittura da oltre il velo della Non Esistenza: “nel mondo cavo del non dire/ ../ incrocio tra nulla e verità”, quando “al mondo intero urla la sua parola” “iniziò la storia che il mondo trasfigura” di cui “s’è persa traccia del suo dire (origine del mondo)”, passando per la Prima Sefirah, Corona o Kether, l’Antico degli Antichi, il Sommo, il Punto Primordiale, i Primi Vortici (“le fauci apre al turbine del mondo”), finché “quasi una danza appare il mondo”. E poi, ancora scendendo, con “l’eterno andare che tutto il mondo affatica” dove, pur non avendo perso, secondo il messaggio dei Simboli, la possibilità della risalita, “tutto s’affanna il mondo e sempre ruota attorno.”

Adesso potrà apparire più chiaro che le ventidue invocazioni, sono lanciate alle potenze racchiuse nel nostro umano microcosmo, ad immagine e somiglianza dell’ermetico “quello che sta sopra”, fuoco sacrale tenuto vivo dalla forza agente del pensiero, dell’immaginazione e della parola.

E la parola di Enigma non disdegna la tensione al riscatto, al cammino ascensionale, al passo, come l’alchimista – il Papa che “avido della luce, custode del sapere / ovunque mostra il passo / (ponte sul passato che ogni uomo invoca), ripercorrendo la via verso l’alto, da dove “il filo del sogno” é “passo non mai visto” ed ”il gran girare invita la passo, al balzo”, “nel passo senza sosta, nel sempre gran mutare”, transitando per il Centro dell’Universo, dove “abile sa il passo dove grazia” (Chesed) “si unisce a fermezza” (Geburah) nella Colonna mediana dell’Equilibrio, nel cuore armonizzante degli opposti. Fino al “passo ultimo che è sempre imprevisto” ma, oltre il quale, nei limiti concessi alla condizione umana, “alzato è il velo che d’inganno era figlio / e la realtà si mostra e più non erra il passo

E così, muovendosi nell’eterno ed ineludibile confronto degli opposti, tra narrazione della caduta e speranza salvifica, questa poesia, elegante e profonda, ispirata e ispiratrice, come il Matto, “scardina intero ogni pensiero / apre in due l’unità e mille verità rivela” 

 


7 febbraio 2003

Indice generale


Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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