Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche
 

Francesca Santucci, L'ultimo viaggio
di Letizia Lanza

F. Santucci, L'ultimo viaggio.
Prefazione di P. Cavallini. Nota introduttiva di G. Risica. Nota critica di G. Lucini
Edizioni Il Foglio, Piombino 2002, pp. 42, Euro 5,00

Esce, cattivante già nella veste grafica, la nuova silloge poetica di Francesca Santucci, esperta di scrittura femminile (in particolare di Emily, Charlotte, Anne Brontë) e già presente sulla scena letteraria italiana con una pregevole raccolta (La vana attesa, 2000).

Certamente un librino di pregio, L'ultimo viaggio santucciano, tanto da giustificare l'attenzione – e le lodi – degli interventi prefatòri, tutti assai centrati. Così, in particolare, senz'altro condivisibili sembrano le considerazioni di Piergiorgio Cavallini – filologo romanzo e traduttore – sulla «forma di queste liriche. Se il versificare è moderno, "franco dai rudi vincoli del metro e della forma", per usare parole d'Arrigo Boito – che non rifugge dall'asindeto (ché già lanceolati/dorati tralci avviticchiati/ossigeno annaspanti infioravano; cupo precipizio/persi la rotta mi smarrii vagai/fluttuai nel sonno. Indi albeggiò/netti i contorni, nitide le sagome/illuminò/delineò il chiarore,/) – l'ornatus è classico, con un uso sapiente delle figure: l'omoteleuto (canarino/paglierino, lanceolati/dorati tralci avviticchiati); la climax (L'inattesa bufera s'abbatté, sradicò,/schiantò, svelse, divelse, seminò/la distruzione; mi smarrii vagai/fluttuai nel sonno); la paronomasia (contro il plumbeo cielo il vólto vòlto; more/amore; le more non amare con omografo che amare); la dittologia (brama ed agogna; la notte che più non rabbuia/e non annotta; attonito ristette/e sbalordì; battimi e percuotimi,/sferzami e scudisciami); il chiasmo (Chiede colore al sole, alla luna calore chiede); l'anafora (e allora m'ameresti,/sì, allora m'ameresti; t'involeresti ancóra/e ancóra… ancóra… ancóra… )» (p. 6). 

Nato all'insegna di Elizabeth Barrett Browning (da cui è tratta l'epigrafe d'apertura – «quando manca la luce, rimane a splender l'amore», p. 13), vive in questo piccolo libro una poesia brillante ed efficace; potente e magistrale; che sa intuire le cose in sé, così da svelare taluni aspetti della realtà e animarli di vita più intensa. Versi che si sgranano densi e armoniosi, dietro e dentro i quali si agita la lenta, sofferta conquista della parola femminile nell'arco dei secoli; la liberazione dal silenzio a lungo imposto; il misconosciuto (dagli uomini) retaggio delle donne di genio: di quelle – poche – che hanno potuto/saputo esprimersi e delle tante, tantissime, rimaste vittime della cancellazione. Qui, infatti, fortissima è la cifra femminile – improntando sopra tutto le figure di donne mitiche: penso in particolare a Furia d'amore (ove, come di consueto, gli enjambement si sprecano): «Fedra ha furia d'amore. Colpevole / in passione, di Teseo sposa / lui non ama: brama ed agogna / Ippolito suo figlio, e ad ogni sospiro / accresce furia ed amore. Spietato / il suo destino, crudele il fato! / Sola nel pianto, ossessa, in disperata / ricerca vana di felicità, dapprima / solitudine, poi, ritrova morte» (p. 16). Oppure penso a Il perduto amore, ove l'immagine della Sirena sovrasta quella di Odisseo – ingessato stereotipo della superiorità eroica e maschile: «Avviluppato, Ulisse, al tronco della nave saldo, / sordo ai richiami, contro il plumbeo cielo il vólto vòlto, / gli occhi neri di brace serrati ostinati, la voce e il canto / e le preghiere finalmente udì, echi distinti tra fragori / roboanti d'onde torbide e fangose. Parlò la sirena, / lenta all'acque sillabò e al cielo e alle lontane terre: / "Parthenope, io fui, prima di sprofondare, / a te il mio cuore offersi, non dimenticare!" / E il capo reclinò, e il mare su di sé richiuse / e allora il capitano i lacci sciolse e attonito ristette / e sbalordì, fisso lo sguardo vacuo al tumulo / marino, sigillo eterno del perduto amore» (p. 21).

Un'accentuata impronta di femminilità, allora. Così come femminile è la paura che percorre molti brani santucciani, coniugandosi per altro con il desiderio e l'abbandono nei confronti del sentimento d'amore: basti leggere La trappola: «Tu leone, io gazzella, vieni a me, / vieni a me di sera, pensiero luminoso, / vieni a me di giorno, pensiero silenzioso, / e il cuore mi ghermisci / e t'apri un varco e t'insinui prepotente / ed ostinato scavi la lacerazione: / ed eccomi, inerme io t'accolgo. / Avida ancóra ti suggerei parole, / infinite distanze da distanze infinite, / e ascolterei rapita declamare i tuoi inganni, / per ricadere di nuovo persa nelle tue fauci» (p. 27). O, ancora, Schiava: «Non subirò – mi dissi – l'amore / amaro più non subirò, ma poi / ancóra ai lacci i polsi, alla catena / il collo, docile e volontaria / volentieri offersi. E consenziente / schiava mi scoprii dolce avvinta / fra viluppi e legacci» (p. 32). 

Un amore che travolge e spaesa, quello di Santucci, che lacera e addolora – incontrollabile e violento (pur se talora tenero) qual è: «Vagavo solitaria sulla spiaggia, / ignoto era a me stessa il desiderio, / eppur'io t'aspettavo, vento di passione; / l'occhio bendato non vedeva, / ma il cuore aveva già riconosciuto. / Avevo bisogno della sferza della tempesta, / dello scudiscio dell'onda fragorosa, / che si sospinge, frange / e poi si scioglie in tiepida marea … / infine sei arrivato, come un ciclone / violento. E allora ora battimi e percuotimi, / sferzami e scudisciami, / lascia che forti senta i tuoi colpi / trasformarsi come d'incanto / in carezze, gentili come un minuetto» (La tempesta, p. 24). 

Un amore che arde e consuma, insomma. E, nella sua rapina, ritrova echi disperati e stravolti nel mondo naturale: «Ineluttabile la stagione muore travolgendo / nella ruina del precipizio anche l'innocente / stelo e annaspando srotola in agonia, / lenta, senza emettere alcun lamento» (Ruina, p. 22); «Rinserrato nella valva il frutto / pure si schiuderebbe per lasciarsi / baciare dalla spuma del mare, / ma il risucchio avanza e la travolge / e la sospinge e l'affonda, giù, / fino in fondo, nel buio dei fondali» (Fino in fondo, p. 22). Non solo. Poiché talora il medesimo amore sembra improntare di sé l'immenso cosmo: «Strani segnali manda / a volte il cuore, alterne / intermittenze come di stella / che collassa: ultimo / messaggio tra i lucori bianchi / degli astrali siderali spazi, / sos sperso nell'Universo» (Segnali, p. 28).

Un amore che a volte dà gioia, certo: ma che – sopra tutto – tradisce e abbandona, così da esporsi/esporre eternamente all'amarezza del disinganno, alla cupa voragine della delusione. A un punto tale da produrre – affetto acre e voluttuoso assieme – tetra una bramosia di morte. Così, per esempio in Preghiera alle Moirai: «Tu Cloto e Lachesi ed Atropo, / inflessibili Moirai sovrane di destini, / pure pietose foste. Vi commosse / il canto d'Orfeo che lamentava / su Euridice, e Pelope giovane ucciso / da Tantalo suo padre. Disperate / piangeste la morte d'Adone, strenue / lottaste per restituire a Persefone / la figlia dall'Ade rapita. Oh tu / che lo stame della vita intessi, / tu che la giusta sorte assegni, tu / che l'ordito disfi, abbiate di me pietà, / implacabili il filo recidete!» (p. 17). Oppure in Esplosiva mistura: «Succo prezioso, nettare divino, / ambrosia vellutata da sorseggiare / adagio, a lungo, di te avrei fatto estratto / da centellinare. E nei momenti / buî dello sconforto, alchimia preziosa, / un veleno potente avrei disciolto. / Esplosiva mistura berti: per te di te morire» (p. 30). Ovvero, ancora, in Momento perfetto: «Reclinato il capo sulla spalla / tesa il sangue a scaturire / in lenta pena dalla bluastra vena / del braccio in distensione / osserverei, calma tranquillità, / fluire via la vita dalla scena: / momento perfetto! (p. 36)

Senz'altro convincente, allora, Giuseppe Risica, quando afferma che il viaggio santucciano dell'amore/nell'amore è «l'ultimo» perché senza ritorno – e perciò turbevole, spaurante al massimo. Ciò non ostante esso rimane, per l'autrice, «l'obiettivo finale da centrare, la meta definitiva da raggiungere, la ragione ultima e più vera della presenza in questo mondo difficile, la sola, probabilmente, per cui valga la pena di vivere e lottare» (p. 10). Una ragione ostinata e possente, che pervade questo minuscolo libro, non esente talora da virtuosismi consapevoli e, perché no? ostentati, ma pur sempre talentuoso e finissimo.


10 gennaio 2003

Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


Per informazioni, si prega contattare la direzione