Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
Antonio Spagnuolo: Rapinando alfabeti
di Elio Grasso


Antonio Spagnolo, Rapinando alfabeti
L’assedio della poesia, Napoli, 2001, pag.93

Non è un paradosso, forse, che da distanze ineluttabili possano mettersi in scena le parole giuste della poesia – senza farsi pregare. Tramite la distanza, fino a un certo punto, proprio queste parole annottano e si rivoltano nel loro letto preferito, fino a che, piene di brio e sorpresa di sé, avanzano decise. Consce d’aver svernato a lungo in padiglioni un po’ dorati e un po’ carcere di sentimenti, si stancano d’essere colpite da tanta ignavia, sicché pare giusto abbandonare il rifugio più o meno costretto, per raggiungere la consistenza della poesia.

Questa impressione comincia a produrre i suoi effetti leggendo il poemetto di Antonio Spagnuolo, opera finalmente e decisamente unitaria, loquace nel suo giusto, di un autore il cui costante lavoro intorno alla poesia non è mai venuto meno. Sono effetti di chiamata verso un cospicuo aggregarsi di temi e confronti, di prospettive visionarie da cui ci si lascia volentieri attaccare (“Oscilla il tuo respiro allo specchio, / scomponendo i segreti, / il richiamo dell’ultimo lamento…”). Il tempo e l’amore, soffi che contagiano e che talvolta guariscono, sono qui scomposti e ricomposti con intenzionale risoluzione linguistica. Per Spagnuolo, le lusinghe del ricordo e del dolore non fanno che scoprire paesaggi mentali: dopo lo sbarco sulle spiagge del reale, ciò non favorisce quella virtualità che spesso di sfilaccia nello spreco.

Per questo la creazione di Rapinando alfabeti è tutta lì, nelle pagine che si susseguono tra voluttuose dichiarazioni d’amore e sobri risvegli del carattere. Versi come “…soltanto con i fiori più fragili / ondeggia la mia infanzia” ci ricordano che, al riparo dalla storia, la poesia può trovare in affettuosa pronuncia la sua via terrena. Che di questo affondo corporeo si nutre, senza ulteriori pegni, né trasformando il viaggio in una perenne fuga.

S’incontrano spesso impennate di luce e di forma, in questo libro – il succedersi dei versi può confiscare la tregua, non c’è compostezza che tenga quando la spinta a comporre fa rompere gli indugi, appiana gli umori, e trasforma il moto delle dita in qualcosa di costruttivo. Come le lancette di un orologio, sembra che nulla facciano, ma tutto simbolicamente trascinano (“Crolla sommesso, dove ruba il sole / alcune tue lusinghe, l’azzurro / e quell’ingenuo serpeggiare dei frammenti”).

Ci sono conseguenze primarie, dopo esser passati nel chiaro di questa foresta (la vocazione biologica di Spagnuolo): intanto, un saluto preciso e ineluttabile alle antiche indulgenze. Chi ha avuto timore del susseguirsi precipitoso di luce e ombra, dovrà d’ora in poi tenere conto che non c’è redenzione, restando di fianco e lontano dalle fiamme, dalle esplosioni. Oggi sappiamo che nessuno è scevro dalla Croce occidentale del mondo. Anche questo poemetto si porge come colloquio non troppo ardente ma rapido nel percorrere le coscienze. La freddezza che aveva strapazzato molta poesia contemporanea si ritenga superata, e resa impronunciabile. Qui niente è fuori del discorso, e del tempo, anche se il poeta talvolta vorrebbe aiutarsi con oscillazioni dell’ansia – perché di questa soprattutto hanno bisogno gli uomini (“A incidere la fine del viale / giochi di presunzione, / nuvole, farfalle, che trifogli al tramonto / inarcano nel tempo”).

Ma “la danza delle percezioni” non deve fermarsi: la differenza può farsi fragorosa quando un balzo improvviso, teso e lungo come Rapinando alfabeti, traccia anche i nostri sentieri di mutamento e indagine. Dopo che molti hanno perlustrato labirinti, e dato comfort ai soliti centri commerciali dell’essere.

Questo poemetto ha scoccato la sua nota.
 

21 maggio 2002
Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


Per informazioni, si prega contattare la direzione