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Franco Tralli, Il tempo e la sabbia Gli specchi, Marsilio, Venezia 2002, pagg. 88, €10,50 Un
forte anelito verso la vita, verso l’impossibile eternarsi dell’essere
umano, nel tempo delle cose della civiltà e della Storia, attraversa
questo composito poemetto di Franco Tralli, definibile anche “romanzo
in versi sulla casa e sulla città”. La struttura poematica,
molto ben calibrata, ritmata nei versi da una forte musicalità,
si estrinseca in ogni singolo tassello, in ogni componimento, delle sei
sezioni nelle quali, ben strutturato architettonicamente, il testo è
costituito. Il nucleo tematico dell’opera è nella tensione esistente
tra lo spazio in cui risiedono tutte le parti architettoniche di una città,
fino all’unità minima di una casa, e il tempo che passa implacabile
e distruttore, lasciando i vari sembianti privi di forma e di materia,
dove generazioni ormai lontane di altre civiltà hanno vissuto per
scomparire dallo scenario: tuttavia di tutto quello che è stato,
rimangono le costellazioni dei siti archeologici che hanno resistito al
tempo e sono testimonianza, dell’arte nella storia, arte architettonica
che pare farsi poesia, attraverso la fisicità della parola. Il
tempo, in questo ordine del discorso, potrebbe essere una quarta dimensione,
imprescindibile e incombente. Come osserva Maurizio Cucchi nella prefazione,
ad accentuare la compattezza della stesura del testo, c’è un procedimento
stilistico, formale, che crea un forte nesso, una tessitura particolare
tra i vari tasselli: c’è la ripresa dell’ultimo verso di ogni componimento
nell’attacco di quello successivo, secondo un antico schema nord-europeo,
uno schema medievale presente nei gazzettieri e neoscribi; qui Tralli recupera
la sua appartenenza a una tradizione diversa da quella della poesia italiana:
infatti il poeta è di origine svedese e in Svezia è vissuto
a lungo. Toccando
vari registri, a volte molto metaforici e icastici, a volte più
distesi e narrativi, sottesi sempre ad una fantasia creatrice molto articolata
e capace di rinnovarsi, di volta in volta, in immagini e reminescenze,
con illuminazioni e accensioni in una scrittura sempre sorvegliatissima,
Tralli ci fa percepire il senso della provvisorietà e della fragilità
della vita, che il poeta e il filosofo dovrebbero sentire con particolare
intensità, il dramma della morte come ultimo termine; non a caso,
anche dal titolo, si evince la fugacità del destino umano, in quella
sabbia che farebbe presumere un deserto, l’immenso residuo dopo tanto lavoro
e tanto pensiero. Pare che qui sia centrale l’idea del fondare:
una città si fonda e, nei siti archeologici, dopo millenni lascia
una traccia, una presenza, così come la parola scritta nei libri
rimane o forse dovrebbe restare, per i successori e i continuatori della
scrittura del mondo. Il
componimento d’apertura della prima sezione “Nella città dei sempreverdi”
pare avere un valore programmatico, rispetto a quanto detto sopra:-“ Non
città d’ombre ma di semprevivi/ è questa che la pietra incanta/
con suoni smorzati dentro il bronzo, /impronunciabili nell’eco delle stanze.//
Più sopra le ragioni, i palinsesti// che accettano giullari sulle
scale// conturbatori di destini// Dove ogni assoluto può accadere//
in punta di germoglio/ con leggende della terra di ciascuno,/ quel fuoco
che proprio nella morte/ brucia la morte, i veleni.//Ti
scrivo dalle province dell’impero// . Una scrittura veloce, incisiva,
icastica, con sintagmi che sfiorano la leggerezza nel complesso tessuto
metaforico, caratterizzato da una forte densità, da brani
che s’intersecano gli uni agli altri sottesi, non raramente, ad una certa
visionarietà e da una forte capacità di rinnovare le immagini
che sembrano scaturire con un forte scatto e scarto, l’una dall’altra.
Nonostante i temi della città e della fondazione di essa e del suo
resistere alla storia nei resti archeologici siano una costante, la visione
globale delle cose non è mai monotematica o di una tinta neutra,
ma prosegue sempre rinnovata. Dai titoli delle sei sezioni, si evince l’intento
programmatico dell’autore e la compattezza dell’opera. Oltre quello della
sezione suddetta i titoli delle altre sono infatti: “Con case di granito”,
“I trionfi dell’architetto”, “L’ultima casa dei perdoni”, “Le mappe
e i luoghi”, “I segni millenari”e “Sharazad, la dama degli specchi”. Una
geografia dei luoghi, dunque, che si fa geografia dei sentimenti e dell’animo
umano, sembra, dunque, dominare in queste pagine, nelle quali la natura,
con i suoi elementi, compare raramente, e, ben difficilmente, fa da sfondo
a una vicenda concentrata sull’uomo e le parti dell’ambiente da lui costruite,
che, proprio contro quella natura, dominata dal tempo che forse ne fa parte,
possono resistere ben poco:-“La casa mangiava le sue vittime/ per recuperarle,
rigonfiandone il sangue/ con strade, divieti corridoi,// quello che era
il varco e da sempre/ sta lì e trabocca di prediurni/ lucori del
Dio che cammina a piedi scalzi./.
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