Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
Antonio Spagnuolo: Rapinando alfabeti
di Esther Celiberti  


Antonio Spagnuolo, Rapinando alfabeti
ed. l’assedio della poesia, 2001, edizione fuori commercio

Il poeta è in bilico tra silenzio e suono. Se egli fosse tutto suono non lo percepiremmo.
Ci accorgiamo della sua esistenza proprio perché vivono il vuoto, il bianco, le sillabe che marciscono; così i versi : “Non offro che parole:/ ultimo paradosso per svegliarti./Rotolando a impazzire/ ho scavato radici/ ed il soffio volteggia, / sgualcisce la gola dell’incubo.”
Il libro ruota vertiginosamente intorno ai movimenti del tempo e della sua voracità, ma da esso non si fa divorare.
Nella costellazione del grande dominatore si accendono memoria e ricordo, che si tuffano nel passato come pescatori di perle, “cercando l’ultimo abbandono/ fra le carte ingiallite/…/ingigantisco le ombre.”
Al tempo non si sfugge poiché esso gioca con noi, ci solca, ritorna in un vortice repentino, “resta sospeso un capogiro/ nel quaderno di un’ora”.
“ Il luogo che fuggivo da tempo/ era il tempo/ che abbatteva sagome/ nelle incerte minuzie,/ che devastava il mio volto,/ ormai lontano dalla primavera.”, dal suo flusso emerge l’indistinto, dalla demolizione si salvano schegge.
Sulle rifrazioni fra passato e presente grava il volto mutato dell’amore, “e comprendo/ che imparerai a baciare anche i fantasmi”.
“Il sapore è cambiato, e col sapore/ infrangi i cardini del sogno./ La corsa inganna/ il giorno del ricordo,/ l’ombra dei miei fragili segni,/ nel vortice di foglie pellegrine” : la parola colma una cavità che, altrimenti, risuonerebbe troppo vuota, abitata solo dalla caducità. Alla morte il poeta risponde con una manifestazione del se come deflagrazione, all’insipido preferisce la vita che scoppia come un petardo ( “esplodo nel mio corpo”, “lancio ancora parole come un folle”), come un ladro strappa le parole per sottrarle alla scomparsa, si muove in uno spazio agonale di differenze, ricorda con il corpo (“quando/ l’immaginaria strada delle ombre/ invade il fuoco delle mie giunture”), muta i suoi sogni ricreandoli altrove per toglierli al consueto (“riaccendo la tua pelle in altre luci”).
Minacciata dal disfacimento, la poesia, come la pittura, deve carpire gli spazi per sottrarli alla morte: “ma il paesaggio è lo stesso:/ lo stendere e l’urlare screziato/ per un rapace ultimo tempo”.
Se “illividisce il ricordo/ ogni tua movenza”, nel setaccio restano diluite tracce, labili segni, ma paradossalmente, proprio nell’evanescenza si può riincontrare il tempo, come dono leggero ed involontario: “certo,/ soltanto con i fiori più fragili/ ondeggia la mia infanzia”.
Nella lotta contro il tempo molte sono le sconfitte, “ho inventato rovine,/ ritorni dal silenzio/ ma l’orologio ha massacrato/ ogni mio sogno”, ma nella poesia di Spagnuolo mai lo scacco è definitivo.
“Rincorro la tua immagine gazzella” scrive il poeta alludendo al meccanismo del ricordo che frammenta l’intero, alla corsa per prendere al laccio la figura prima che impallidisca e si cancelli. Ma il tempo frana alle attese della memoria, oscilla, sembra sul punto di liquefarsi come l’orologia di Magritte, “ti ho smarrita/ prima ancora che il tonfo/ rispondesse ai ricordi”, devia il tempo, perde la strada maestra, volta le spalle “in un furtivo scherzo delle ore”.
Il nodo della scrittura è recupero, riappropriazione, risarcimento, la poesia cura l’impossibilità di tornare indietro. Nel presente il poeta predatore può solo limitarsi a mettere in iscena il passato, a riprodurlo su di una ribalta.
Passato è tornare a casa, nella vecchia casa ed avere la pretesa di trovare ogni cosa al suo posto. Quella casa è il tempo, così il poeta: “là dove c’erano glicini o soltanto/ segni di una possibile scomparsa,/ compaiono le ombre delle nostre scansioni, compaiono i giorni del giardino/ che ripete il mio gesto”.
Rendere il tempo signore dell’eterno e dell’assoluto spaventa il poeta, che vorrebbe trattenere il corso del fiume, ergere una diga: 2aspetta ancora un poco:/ vorrei fermare il tormento che la storia/ mi ha stretto fra le braccia,/ e bloccare l’orologio festante/ all’angolo di casa.”
Talvolta i testi  possono apparire come nature morte dove si mescolano bottiglie e stoffe ma in essi il sangue non cessa di scorrere, “basta contare gli anni,/ scendendo con la rabbia alla rovescia”: la senilità va percorsa contromano, scivolando a ritroso dal cumulo degli anni, rovesciandone il corso, “il mio nome strappa meridiane” – scrive il poeta.
Se la vecchiaia è crepa, incrinatura, tempo e poesia sono ambedue rapaci: “si aggirano le ore a rosicchiare/ ciò che resta ai taccuini/ la voluttà di un breve accadimento”.
Nell’affabulare il tempo è di manica larga, rinvia la fine, la potente erosione con i suoi orditi bislacchi, slitta differendo la morte. Immerso nel tempo come nell’aria che respira il poeta soffre su di se i cicli schiodati dal loro alveo, i ritmi sconnessi, “trattenute alle mani/ sbalzano le stagioni/ intorno agli ultimi lembi”.
Tutto precipita e si confonde, tutto si riduce ad uno, nella grande e arcana caverna: “quante braccia nel precipizio segreto,/ inconfondibile,/ della primavera./ Sgusciamo il tempo,/ qualcosa incatenata nell’angoscia.” Per mitigare le asperità si deve ricrearlo, premerlo e modellarlo come cera molle.
Mettere in luce o in ombra fa parte di questo lavoro scultoreo che non ha mai fine; illuminare, velare, lo sguardo del poeta è regale: “così plagiamo i giorni/ attraverso artifizi,/ con parole che hanno forma di mani/ o suoni di metalli./ Tali sono i meandri/ di quel che chiamo oblio:/ mura crollate e zone d’ombra/ nel flutto di una nuova fantasia”.
Alla catena del tempo strettamente si lega il ricordo.
“Dai luoghi nulli,/ dove risveglia i ricordi/ semplicemente l’ultima parola,/ che balbetta il fondo di vertigini,/…/ Da la cenere di colori ancorati/ fra le socchiuse lenzuola,/ errabonda di immagini sul fondo/ dell’assenza”, covati dai grembi i ricordi affiorano dopo il buio, le coltri sollevate li restituiscono liberandoli, come nel “Porto sepolto”, come il muro di una casa, ricoperto di manifesti, che poi le pioggie dilavano restituendolo a se stesso.
“Azzannare la nebbia/…/ e dissolvere immagini/ tra la bocca e il cipiglio/ che all’esultanza del cenno/ urla nel tuo ricordo”, dalla nebbia che si fende, dal secchio che risale il ricordo ritorna con urlo espressionista.
Impaziente, non riesce a tacere, vuole farsi largo.
Tutto il versante maschile e dannato del tempo viene affiancato dall’esaltazione del femminile, del corpo trionfante: l’eros è una festa, la sua voce parla da un fondo intimo e denso di allusioni, “è la carezza ardita/ nascosta fra le coltri immaginate”. Il corpo della donna è labirinto, vigna, risacca, corolla, “le meraviglie tue ghermite a sera/ preda alle ombre,/ onnipresenti fittissime euforie”.
“Gioielli indiscreti” i sessi parlano, “l’unica tortura la rosa/ nel mezzo del tuo ventre/ che ripete il mio nome…”.
In una misteriosa spirale il poeta mescola le tessere di un mosaico erotico, un epico disegno tra “infinite vertigini”. Tempo, eros e racconto si congiungono: “questa stagione torna sulla pelle/ con l’ombra di un racconto”, si fondono per scacciare l’evanescenza, “la schiuma dei giorni”. Al cospetto del femminile egli abdica.
E nel va e vieni del tempo si sporge una scena vechcio-nuova . “i nostri corpi/ annidati fra le dita di ieri,/ nei luoghi sazi ,/ fra le palpebre schiuse,/ mentre il grembo ancora muta/ per il nuovo sipario”, nulla mai scompare del tutto. Con mano furente l’eros conduce il poeta. Pan è una donna.
Spesso simile alla lava cromatica o ai deliri non figurativi dell’arte informale, “Rapinando alfabeti” non si lascia facilmente definire, è mobile, sfuggente, enigmatico; sfilacciato ai bordi, trova nell’assemblaggio il suo principio compositivo e nel mondo interiore un dominio attraversato dal tempo e dall’eros, il mondo esterno è come sfocato e distante. In questo teatro dell’io la poesia è spesso montaggio visivo, alogico e scomposto.
Come una nave che naufraga, lascia nelle acque circostanti casse, relitti, oggetti disparati che i versi del poeta recuperano, portano a galla, sottratti all’abbandono.
Per il poeta la condanna, infatti, è “perdere il passato”.


11 febbraio 2002

Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders