Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
La Commedia come partitura bachiana di Michele Croese
di Sandro Montalto


Questo agile quanto approfondito saggio[1] di Michele Croese, laureato in lettere, diplomato in pianoforte ed organo, concertista, revisore ed insegnante, parte da una grande suggestione: l’esistenza di alcune analogie fra l’opera di Bach e quella di Dante, nella fattispecie soprattutto fra il Sanctus della Messa in si minore di Bach e i canti del Cielo del Sole nel Paradiso dantesco, messi in relazione attraverso chiavi di lettura offerte dalla Bibbia e da alcuni testi basilari della cultura classica e religiosa medioevale (principalmente saranno citati Institutio oratoria di Quintiliano, De musica di Agostino e De institutione musica di Boezio), nonché alla luce dei tratti che li uniscono «sub specie aeternitatis: la sintesi e la fede»[2]. L’impostazione critica del lavoro, la cui trasparenza e scientificità hanno molto da insegnare anche a illustri saggisti, deve i suoi passi iniziali alle istanze di Leo Spitzer, Ernst Robert Curtius, Erich Auerbach ed Claudio Guillén per quando riguarda i “modelli di sovranazionalità” (tre condizioni: premesse culturali comuni, casi di autori geneticamente indipendenti ma con situazioni storico-sociali analoghe, autori geneticamente indipendenti ma accostabili sulla scorta di principi derivati dalla teoria dela letteratura); ma il volume si avvale del supporto di non pochi studiosi e pensatori antichi, moderni e contemporanei, a volte citati con il proposito di operare una documentata smentita.Il dato iniziale è che i due Grandi hanno dato vita nei rispettivi campi ad un’opera mirabile di sintesi di ciò che era stato fino ad allora raggiunto portando il tutto ad un vertice ed esaurendo le forme espressive del loro tempo; l’incrollabile fede che li unisce ha portato all’identificazione delle due parti di opera sulle quali concentrarsi, ambedue «proiezioni dell’ordine e della volontà divina e – inevitabilmente – di un bisogno personale e urgentissimo di infinito». 

Questa suggestione, che come l’arte stessa nasce da qualcosa che non può essere presentato per «categorie esclusivamente razionali», è qui svolta con abbondanza e precisione di riferimenti testuali e musicali, mai compiaciuta nella meticolosità ma precisa e non semplicistica, e soprattutto non pretende di creare un’equazione (secondo Mandel’štam e Gould citati in esergo, leggere Dante è «prima di tutto un lavoro interminabile» e Bach «trascende tutti i dogmi artistici, tutte le questioni di stile, tutte le sterili e frivole preoccupazioni dell’estetica»), bensì intende sciogliere almeno parzialmente un nodo affascinante che incrementi le riflessioni sugli studi comparati «oltre i confini consueti di una sola arte», insomma sulla necessità di un operare metastorico e interdisciplinare. 

Il primo passo è indagare quanto Bach abbia attinto alla retorica del suo tempo e quanto Dante alla musica, infilando una degna stoccata a chi in passato ha conferito dignità e sistemazione teorica alle riserve sull’ultima cantica dantesca, per poi esplicitare come ambedue gli autori abbiano intrecciato varie esperienze per giungere ad un personalissimo rapporto con la divinità ed il proprio tempo: Dante fustigatore della chiesa di Roma e Bach che nella citata Messa attinge al patrimonio gregoriano proprio nel Credo, trattandolo per di più «secondo quello che veniva all’epoca definito lo stylus gravis, e cioè secondo i principi della polifonia cinquecentesca di Palestrina, genialmente rivisitata», ossia un ponte gettato al contrario verso il cattolicesimo in nome di una «spiritualità superiore». Inoltre si consideri che la Messa è per vari motivi è ineseguibile durante una liturgia, e che Bach la sistemò quando economicamente non ne aveva bisogno, essendosi dal 1730 praticamente negato ogni composizione sacra, facendone così una testimonianza che sfonda la barriera creata dalla “laicizzazione” spesso operata di composizioni come Arte della fuga o Offerta musicale. Un’autentica esigenza interiore, così come fu per quell’immensa opera contrappuntistica qual è il Paradiso, che accomuna i due autori, ambedue vissuti in situazioni storiche di passaggio, nonostante siano separati nel tempo da «l’Umanesimo, il Rinascimento, il Barocco e la Riforma» (ma a monte di ambedue c’era il patrimonio comune della «letteratura classica greca e latina, la patristica, la scolastica e naturalmente – e soprattutto – la Bibbia», testi che in passato erano anche vissuti anziché essere solo, come oggi avviene, studiati a distanza). Qualcosa di simile fece Beethoven con la sua Missa Solemnis, secondo un’osservazione di Geiringer[3] ripresa da Basso[4] (due studiosi centrali nella presente opera), il quale sottolinea come in Bach sia evidente la concordantia oppositorum che trascende ogni questione confessionale e convenzionale. 

Croese passa poi a fornire alcuni cenni sulle circostanze della lunga e complessa composizione della Messa sottolineando la stretta rispondenza che vi è in Bach fra testo e musica ben al di là del “mestiere” che è proprio di ogni buon compositore, il che avviene in modo particolare nel Sanctus qui preso in esame, analizzato alla ricerca in qualche modo dei «processi mentali che determinarono la creazione in riferimento ai significati del testo». Da qui iniziano a snodarsi i possibili collegamenti fra la cultura dantesca, che si sa essere stata onnivora e comunque comprendente la musica che era materia del quadrivio, e quella bachiana, più ristretta al proprio campo ma debitrice agli stessi testi: si veda ad esempio la lettura del citato testo di Boezio, da Dante studiato, che estese «le sue estreme propaggini fino ai teorici musicali tedeschi del XVIII secolo» e che Bach probabilmente lesse. Le prove che Croese fornisce si basano sull’individuazione di terzine del Paradiso che rimandano inequivocabilmente a certe definizioni boeziane, ad esempio la definizione di “consonanza” o la definizione dell’armonia come “dissimilium concordia”, e che diventano in Bach «la definizione normativa di contrappunto» determinandone la peculiare “condotta delle parti” in un brano polifonico (segue una serie di convincenti esempi musicali, con estratti di partiture). Altre terzine del Paradiso sono individuate quali applicazione poetica o descrizione ad esempio del “moto obliquo” (VIII, 16-18) o della forma di polifonia vocale medioevale detta “organo” (XVII, 43-45). Ciò non deve stupire, se si pensa alla trama della polifonia come ideale simbolo o realizzazione del «disegno organico della provvidenza per il futuro di Dante e della sapienza che lo ha concepito» (vedi anche Par. VI, 124-126); Boezio definisce la musica anche “scienza delle proporzioni”. Alla prevedibile obiezione che già Palestrina aveva concepito simili procedure, poi portate alla perfezione da Bach, Croese risponde che Palestrina era in primo luogo musicista che si esprimeva in una “lingua” concepita per il proprio tempo mentre all’epoca di Bach i severi precetti del contrappunto erano già considerati obsoleti e diventano chiaramente una scelta consapevole e precisa, ed in secondo luogo che «la sintesi verticale del contrappunto che propone Bach si fonda sul sistema armonico tonale, quel sistema che ai tempi di Palestrina si cominciava a codificare, e che dal Seicento in poi sarà la grammatica del linguaggio musicale fino ai primi del Novecento». Così Croese soddisfa anche la prima condizione di Guillén e inaugura un percorso storico a lato di quello metastorico all’inizio progettato. 

Nei capitoli II, 5 e II, 7 l’autore, dopo aver illustrato la cultura di Bach, argomenta su due interessanti incontri che occorsero al compositore: quello con Johann Gottfried Walther, musicista, compositore e lessicografo proveniente da studi di diritto e filosofiache Bach conobbe a Weimar e dal quale ricevette molte informazioni sulla retorica musicale, e quello con Johann Mathias Gesner, considerato oggi uno dei pionieri della filologia classica e rettore a Lipsia della Thomasschule, della quale Bach assunse l’incarico di Kantor, che riuscì a far sollevare il compositore da ogni incarico extramusicale consentendogli di lavorare con maggiore libertà. Gesner fu anche traduttore della Institutio oratoria di Quintiliano, testo chiave per la musica barocca, e in un passo del suo commento riservò a Bach un omaggio notevolissimo che certamente lo spinse a leggere questo trattato. A questi incontri si aggiunga ovviamente quello del 1747 a Potsdam con Federico II, dedicatario dell’Offerta musicale, cultore di musica ed autore di quel tema sul quale chiese a Bach di improvvisare, ottenendone un parziale rifiuto che Croese legge all’insegna di Quintiliano nel capitolo II, 8. Altra lettura interessante è quella dell’importanza del numero 14 in Bach: egli si iscrisse alla prestigiosa Sozietät der Musicalischen Wissenschaften molto tardi (Telemann, Haendel e altri lo erano da tempo) presentando per l’ingresso l’Offerta musicale, e risultò essere il quattordicesimo iscritto; potrebbe non essere un caso, siccome sommando «i numeri che le lettere del cognome Bach assumono nell’ordine della sequenza alfabetica» si ottiene 14; secondo alcuni critici poi tale numero ritorna in molte composizioni, determinando anche il numero di note dei temi. Croese sa certamente come Bach abbia inserito nelle sue musiche temi o frammenti di temi corrispondenti al proprio nome (le lettere B, A, C, e H simboleggiano 4 diverse note) secondo un procedimento che molti grandi musicisti poi ripeteranno; inoltre, nel volume I Bach di Karl Geiringer, altrove da lui stesso citato, la tavola 31 riproduce il manoscritto dell’ultima pagina dell’Arte della fuga nella quale una nota autografa del figlio Carl Philipp Emanuel Bach annota: «a questo punto, dove il nome B.A.C.H. doveva entrare come controsoggetto della fuga, l’autore è morto». Ma Croese omette di notare che il numero 14 è importante anche in Dante, oltre ovviamente al 3: il poeta nacque un 14 maggio (probabilmente) e morì un 14 settembre (secondo Boccaccio, mentre secondo Giovanni del Virgilio e Meneghino Mezzani, secondo Petrocchi[5] più attendibili anche se non è da escludere un’ipotesi intermedia, il 13), fu esiliato da Firenze con 14 compagni, uno dei quali, ricordato nella Commedia (Lapo Salterello) ha il nome di 14 lettere, così come Virgilio Marone, Tommaso D’Aquino, il suo “maestro” Brunetto Latini, il suo mecenate a Ravenna Guido da Polenta, lo stesso Dante. E poi la Commedia ha in ogni canto una media di circa 140 versi (per la precisione 142), per un totale circa di 14000 (per la precisione 14235). Ma non pare consigliabile proseguire su questa strada, essendo la numerologia una disciplina ambigua e spesso discutibile, e comunque Croese stesso più avanti cita un saggio di Curtius che rileva l’importanza numerologica anche nella letteratura. 

La Riforma arrivò a considerare la musica “ancilla theologiae”: è nota la predisposizione di Lutero per la musica, e l’attenzione di Bach verso molti dei corali da lui raccolti, e il legame fra il testo e la musica che allora tanto interessava – possiamo dire – creò il terreno fertile per la “retorica della musica”, campo che Boezio già in qualche modo anticipava definendo “musicus” colui che è in grado «non solo di considerare e dominare l’aspetto speculativo del fenomeno musicale, ma anche chi ha la facoltà di giudicare convenientemente de poetarum carminibus». Inoltre Agostino aveva giàdefinito la musica come un aspetto della Verità Divina, non conoscibile nella sua perfezione e armonia se non attraverso la musica che diviene così strumento privilegiato, tra l’altro portando Dante a concepire come massima espressione della gioia dei beati il canto. Si ricordi inoltre come nella Commedia la monodia sia cosa negativa (probabilmente perché «nella sua forma di espressione più alta è lirica», fin dai greci espressione legata ai sentimenti dell’uomo e quindi alle cose di questa terra) mentre dal Purgatorio il canto inizia a farsi corale fino a giungere alla beatitudine e alla polifonia della terza cantica (si approfondisca comunque il capitolo Sulla musicalità del verso dantesco). Nel capitolo II, 6 Croese spiega con facili ma efficaci esempi musicali (dal Magnificat BWV 243) cosa sia la retorica della musica, illustrando tra l’altro come là dove il soprano canta “humilitatem” la melodia a frasi discendenti sembri inchinarsi; o, meglio ancora, come nella bellissima e complessa parte Fecit potentiam in brachio suo al punto in cui il testo recita “dispersit superbos” la prima delle due parole veda un frammentarsi e autentico disperdersi delle parti fino ad allora compatte in un denso contrappunto, per poi creare un accordo arrogante e dissonante[6] raggiunto in prevalenza con un intervallo ascendente, come fosse uno scatto di superbia. 

Fermata l’attenzione sulla retorica musicale si torna a Dante e al suo ingresso nel Cielo del Sole, la zona alta del Paradiso dove stanno i sapienti sorretti dalla fede e illuminati dalla grazia. Dante ha in tutta la Commedia forti impressioni acustiche, ma nel Paradiso la musica diviene espressione di una sapienza legata alla filosofia, e il canto si rivela la forma più consona alla natura dei beati. Dante celebra Boezio per bocca di Tommaso e, in paralleli più strettamente musicali, fa cantare a Sigieri e Tommaso le lodi a Dio come a voler risolvere «le dissonanze che in vita li avevano divisi»[7], similmente a ciò che accade a domenicani e francescani. A poco a poco la «ghirlanda dei sapienti» si rivela un immenso coro polifonico fatta di voci individuali e riconoscibili i cui contrasti si risolvono nella superiore armonia celeste, orchestrata da Dio «che sempre la sazia» (Par. X, 50). Da qui in poi rinunciamo a riassumere i percorsi che Croese propone, fra i quali sta lo studio delle alliterazioni nel Paradiso che rimandano alla cosiddetta circulata melodia (molto interessante è l’osservazione al capitolo III, 2 secondo la quale Dante non suggerisce tramite la circulata melodia il tema del cerchio, come canto e simbolo divino, ma tramite l’opposizione di due accezioni della parola “canto”, indagine che porta alla scoperta di un preciso rapporto fra il doppio coro bachiano e il rotante coro dantesco). Piuttosto, torniamo ai cori reali di Bach e al suo Sanctus, «sorta di “biglietto da visita” o manifesto programmatico della poetica bachiana»: qui i precetti della retorica musicale vengono applicati alla musica ad esempio nelle primissime battute, nelle quali suggestivamente Croese riporta l’identificazione, operata da alcuni critici fra i quali Geiringer, delle terzine cantate dalle voci femminili come ali angeliche stilizzate (le sei ali dei serafini) così come fecero gli antichi collegando le stelle ed ottenendone figure, o più avanti come fece la tradizione del “carme figurato”[8]. Ma così come Dante opera piegando la lingua alle sue esigenze e rifiutando regole da seguire pedissequamente, tanto che Auerbach definì la lingua dantesca un miracolo per chi abbia studiato gli autori precedenti a lui, anche Bach rifiuta una mera esecuzione delle regole della retorica musicale, inventando soluzioni originali ed inedite. 

Contemporaneo di Bach, con il quale però il musicista non dovrebbe avere avuto rapporti diretti, è il pensiero di Leibniz, il quale in un passo (Monadologia § 83) citato da Croese accenna ai “saggi architettonici” per mezzo dei quali l’artista può tentare di conoscere il sistema dell’universo e riprodurne parti, osservazione che Otto von Simons[9] riprende parlando dell’immagine medioevale dell’architetto e descrivendo Dio come costruttore che crea grazie a scienza architettonica e matematica, nonché l’architetto medioevale che si accingeva alla costruzione di una cattedrale come uomo consapevole di stare imitando Dio e costruendo un modello dell’universo dal suo tempo concepito. Croese parte da qui per terminare il suo discorso con una dissertazione sulla possibile nascosta presunzione dell’artista che tenderebbe a voler coincidere con Dio, il sommo artista-costruttore, ma noi ci permettiamo di rinviare il lettore anche al saggio Il significato della musica di Marius Schneider[10] che nei capitoli Il significato della voce e soprattutto Il significato delle ali sviluppa riflessioni importanti circa un campo vicinissimo a quanto detto fino ad ora[11], e che nel capitolo La nascita musicale del simbolo parla dei suoi studi sul chiostro romanico di Cugat in Catalogna i cui risultati portarono all’identificazione della sua costruzione e delle sue decorazioni come successione degli elementi di un canto liturgico. 

In conclusione ci si permetta una banalità che, incredibile a dirsi, è ancora un grande insegnamento, per quanto misconosciuto: nel caso improbabile in cui ce ne fosse bisogno Bach e Dante dimostrano ancora una volta di essere classici autentici (forse più vicini all’interpretazione di classico data da Borges che a quella di Eliot[12]), ossia opere che hanno sempre molto da insegnarci, che possono sempre supportare nuove letture, opere sempre attuali in grado di fornire insegnamenti adatti ad ogni epoca in cui vengono letti o ascoltati, lavori che aspirano alla perfezione e realizzano l’intelligenza, al di là di ogni concomitante iniziale spinta dogmatica o ideologica. Essi occupano un posto solo loro, si ergono sul loro passato e il loro futuro senza appartenere a nessuno dei due e, come chiosa il saggista, hanno creato opere nelle quali il lettore-ascoltatore troverà un’esigenza di assoluto ed un assoluto stesso realizzato poeticamente «che può essere, a seconda dei punti di vista, analogo o alternativo, ma in ogni caso formalmente perfetto». 


[1] ETS, Pisa 2001
[2] quando non specificato altrimenti le citazioni sono di Croese
[3] I Bach, Rusconi, Milano 1981
[4]Frau Musika, vol. II, EDT, Torino 1983
[5] Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Laterza, Roma-Bari 1993
[6] una settima diminuita, che da questo periodo in poi (un esempio mirabile si ha anche nella bachiana Passione secondo Matteo: tre accordi di settima diminuita in corrispondenza delle tre sillabe di “Barabba” urlato dalla folla) diverrà in musica espressione privilegiata di momenti particolarmente drammatici.
[7] In particolare, qui si tenta, alla luce della "sintesi armonica degli opposti", una risoluzione plausibile dell'"enigma di Sigieri", che ha attanagliato generazioni di dantisti. Dopo aver vagliato, in merito, alcune delle più autorevoli proposte esegetiche, l'autore si ritiene insoddisfatto soprattutto della recente lettura "positiva" del caso Sigieri proposta dalla Corti, che spiegherebbe la presenza del filosofo "eretico" nella corona dei sapienti grazie ad una sua riconciliazione terrena con Tommaso: infatti "se si suppone la sua [di Sigieri] presenza nel Paradiso dantesco solo in virtù di una sua tarda conversione al tomismo, si deve trovare una spiegazione altrettanto plausibile per giustificare la presenza di Gioacchino da Fiore" nell'altra, analoga, corona di beati. In realtà "l'armonia del Cielo del Sole non è stata preparata in terra: la sua caratteristica è quella di essere una delle gioie care e belle del Paradiso, che non si posson trar del regno: Sigieri e Gioacchino sono l'elemento dissonante che esalta maggiormente la suprema consonanza della sintesi armonica divina".
[8] Segnaliamo, nella sterminata bibliografia dedicata al carme figurato, il saggio di Enrica Salvaneschi intitolato Un carmen figuratum il Lawrence?, in: «Concertino» I 2, 1 ottobre 1992, pp. 9-12. Cogliamo l’occasione per segnalare il volume Per un divano letterario: sette serate di comparatistica (ETS, Pisa 2001) curato da Salvaneschi e contenente tra l’altro un saggio di Crose intitolato “Leopardi e Chopin: specchi sembianti.” 
[9] La cattedrale gotica, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 43-49
[10] Rusconi, Milano 1979
[11] Nel saggio Il canto gregoriano e la voce umana addirittura una breve analisi è condotta proprio sulla Messa in si minore, sulla quale il bizzarro giudizio però è negativo, anche se bisogna riconoscere che non è strettamente musicale: farebbe parte di quella serie di composizioni splendide ma imbrogliate e piene «degli ostacoli nati dall’egocentrismo», laddove il canto gregoriano è invece «un cammino per la comunità». 
[12] Secondo Eliot un classico è il prodotto necessario di un’epoca in cui la civiltà e la lingua hanno raggiunto il loro apice, in altre parole un libro scritto in un determinato e rarissimo modo. Secondo Borges invece un classico è un libro che viene letto in un certo modo, ossia come se nulla in essi fosse casuale ma tutto fosse determinato, tutto avesse una precisa giustificazione. 


8 febbraio 2002

Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders