Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
Antonio Spagnuolo, Rapinando alfabeti
di Plinio Perilli


Prefazione al volume “Rapinando Alfabeti”  di Antonio Spagnuolo
ed. L’assedio della poesia, novembre 2001
 

Uno dei problemi e degli esiti fondamentali dell’arte moderna – tutta, dalla parola al segno, al suono, all’idea – è stato e forse ancora è quello di districarsi nel difficile rapporto tra soggetto e oggetto, tra l’Io e il Mondo, tra l’emozione e la materia che la riceve, e in fondo la infibra, la necessita, se ne fa pienamente pervadere… Perfino il travaglio immaginativo e stilistico di Rilke, in anni decisivi per il nuovo corso intellettuale dell’Europa, percorsa dalla linfa sotterranea o esplosa di cento avanguardie, in una ammaliante serie di lettere alla moglie Clara, intorno al 1907, s’incentra intorno alla necessità di lavorare, riplasmare espressivamente la materia estraendo da essa il vero volto dell’oggetto… E’ un processo che in Rilke si era attivato, o meglio precisato, proprio ammirando e rimirando, al parigino Salon d’Automne, una mostra di quadri di Cézanne, il padre putativo della nuova pittura moderna: “Oggi sono stato di nuovo davanti ai suoi quadri; è strano come siano in grado di costituire un ambiente. Senza guardarne nessuno in particolare, in piedi fra le due sale, si sente la loro presenza chiudersi in una colossale realtà. Come se quei colori ti togliessero, una volta per tutte, ogni indecisione. La buona coscienza di quei rossi, di quei blu, la loro verità semplice ti educa; e se ti poni in mezzo a loro con la massima disponibilità, è come se facessero qualcosa per te. Si nota anche, e sempre meglio di volta in volta, quanto fosse necessario spingersi anche oltre l’amore. E’ naturale amare ciascuna di queste cose, quando la si fa: ma se lo si mostra, si fa meno bene la cosa; la si giudica, invece di dirla. Si smette di essere imparziali; e la cosa migliore, l’amore, resta fuori del lavoro, non entra in esso, gli rimane accanto come un residuo non utilizzato: così nacque la pittura degli stati d’animo”… 

Ebbene: si può “costituire un ambiente” anche con l’arredamento esistenziale, funzionale e formale dei versi? E può una poesia – un modo di far poesia, di viverla, di pensarla, diremmo perfino di rinnegarla – consentirci di chiuderci “in una colossale realtà”? Come se quelle parole – quelle invece di altre – ci “togliessero, una volta per tutte, ogni indecisione”, ci istigassero a smetterla “di essere imparziali”… Mutatis mutandis, tornando alla nostra estrema contemporaneità, abbiamo ripensato a quell’inquieto e denudato giudizio di Rilke – a quel sospeso e affabulato rapimento per i quadri e l’ “oggettività smisurata” di Cézanne – proprio leggendo quest’ultima, sorprendente raccolta poetica di Antonio Spagnuolo, estrosa voce lirica riemersa od oberata da Psiche, Rapinando alfabeti, che molto ci ha convinto e intrigato nel suo fantasioso, inesausto e visionario viluppo espressivo, aggregato per irrefrenabili baluginii, meditazioni gnomiche, schegge sapienziali, deliri raziocinanti e capziosi, solipsistici recessi psicoanalitici, macerato e obnubilante specchio di una deriva che, giova ammetterlo, non è solo linguistica, sintattica o stilistica, ma, naturalmente, per ciò stesso emotiva, irradiante di dissonanze, logiche o inconsce che valgano, fugaci o più spesso irredimibili, congenite, o per meglio dire endemiche al Moderno:


Disseziono parole per vendetta

confuso fra le crepe del silenzio
e gioco con le insidia delle labbra.
Franano gli inganni su la storia
che attende, 
oltre il debutto della fantasia.
 

Vendicata – o vendicativa – dissezione di parole, frana d’inganni “su la storia che attende, socchiusa”, che insomma già risalta come una aspra e inquieta dichiarazione di poetica… Dove il linguaggio è metafora del corpo, e viceversa, ed il corpo, ancor più, è materia dell’anima; così come l’anima, ancor meno, s’è spogliata del corpo, cioè a dire, degli stereotipi fisici, delle convenzioni ufficiali, del linguaggio ereditato (e scontato) della poesia di prima, di ieri, improponibile come un perduto ordine familiare, un deposto equilibrio della fantasia e del reale. Anche per Spagnuolo è stato necessario – così come Rilke ha diagnosticato ed ammirato in Cézanne – “spingersi anche oltre l’amore”: “E’ naturale amare ciascuna di queste cose, quando la si fa: ma se lo si mostra, si fa meno bene la cosa; la si giudica, invece di dirla. Si smette di essere imparziali”… La poesia affranta e infranta di Antonio Spagnuolo non giudica, non mostra amore, smette di essere imparziale; e dunque fa, agisce, dice e si dice, imperturbabilmente adirata, franata in ogni inganno “su la storia che attende, socchiusa / come polla segreta”, ricolmata di vuoto e di vuoti, laceranti ma non meno affabulati, controelegiaci, smascherati nell’aura. Quei vuoti “che saranno il debutto / della fantasia”, una fantasia inferocita all’idillio, feroce e impertinente proprio in suo nome e onore, per riempire il vuoto sfilacciato e intollerabile (Innominabile, avrebbe detto Beckett) della Scrittura:
 

E… sono un libro inferocito
sul racconto dei figli ormai impazziti.
Ed il mio nome strappa meridiane,
avvinghiando l’insonnia alle pareti.
Contro le vele e gli archi
hai programmi d’angoscia,
pronta a sezionar le maree.
 

Aveva ragione un critico esperto e rigoroso come Giuliano Manacorda, stilando e commentando una breve raccolta collettanea di “sei poeti confrontanei” in Disordinate convivenze (1996), a sintetizzare il percorso di Spagnuolo come il “rapido precipitare da una chiamata di correo nella quale tutti potremmo sentirci colpevoli di esistere per le paure le angosce i silenzi i segreti che ci dannano – alla propria personale sofferenza”. Precipua e sintomatica, poi, l’osservazione che in lui – in questa poesia controversa ed aspra – “il pronome e l’aggettivo della prima persona sono continuamente espressi e rafforzati dalla presenza della seconda persona. Il dolore, la delusione, gli sprechi del vivere, la visione ormai lontana della giovinezza, i presagi del lutto segnano, a quanto di continuo appare, queste ‘ceneri’ della vita – forse irrimediabilmente almeno finché non rinasca ‘il gusto della trasgressione ’ ”…

In realtà, di libro in libro, Antonio Spagnuolo non ha mai perso il gusto della trasgressione, la voglia di rimettersi sempre in discussione, e sempre, ovviamente, Rapinando alfabeti… Fedele forse al tagliente credo e adagio di Wittgenstein: “Sarà rivoluzionario colui che potrà rivoluzionare se stesso”.
 

Un altro sguardo consuma le mie attese.
Nell’offrirti per la prima volta,
ti prego, svelami il segugio
che racchiude la mia disperazione.
 

Disperazione stilistica, disperazione sperimentale, disperazione contenutistica – presto magari ribaltate in assuefazione, in consumazione, in attenuazione… Trovandosi a prefare nel 1980 Graffito controluce, Giovanni Raboni segnalava infatti, “nella pronuncia poetica di Spagnuolo, una continua oscillazione – ma preferirei chiamarla tensione, conflittualità costitutiva – tra un modello, diciamo, di rigorosa affabilità raziocinante e, perché no?, metafisica (…) e un modello più corrente, più novecentesco nel senso meno inusuale del termine, cui potrebbe bene adattarsi la formula simbolistico-ermetica della ‘poetica della parola ’ ”…

Un fecondo altalenare, insomma, tra tradizione (esperienza) e innovazione (progresso), nel nome d’una riaggiornata analisi e diagnosi della Realtà, non meno esterna che interiore, pubblica che privata:
 

Segno il luogo dove la mia storia
finisce,
dove il silenzio trattiene anche il respiro.
Il luogo (del tempo), forse il non-luogo del non-tempo… Vissuto e restituito in una prospettiva esibita e teatralizzante, quando il vero spettacolo lo fa la Parola, delegata dell’Io, del Noi, dei sensi e dei nonsensi, amara beffa o premio e specchio per la Storia:
Ed il mio nome, il mio spazio 
si è fatto breve.
Non c’è più scena – diresti –
Trasporto le parole appena un attimo
per l’inganno dei drappi.
Nel cigolio degli abbandoni,
l’impronta dei tuoi anni. 
 

Tornano in mente alcune delle implacabili Considerazioni inattuali di Nietzsche, specie la prefazione al saggio “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”: “Certamente noi abbiamo bisogno di storia, ma in modo diverso di come ne ha bisogno il raffinato indolente nel giardino del sapere, anche se costui potrebbe guardare dall’alto i nostri duri e rozzi bisogni e necessità”. Considerazioni in realtà perfettamente attuali anche per la storia – e il ruolo, la finalità – della poesia… “Noi vogliamo servire la storia nei limiti in cui essa serve la vita: ma vi è un grado di fare storia e una valutazione della stessa, in cui la vita deperisce e degenera: un fenomeno che è oggi necessario esperire sulla base dei rimarchevoli sintomi del nostro tempo, nella stessa misura in cui può essere doloroso”. Antonio Spagnuolo sa fin troppo bene quanto dolorosa e degenerante possa essere l’esperibilità della Storia, il suo traumatico concretarsi dentro o fuori dal teatro dell’Io, dal soggettivismo della parola, dall’oggettività infine stupendamente avulsa e correlata della poesia:
 

Quella storia che attendi, sconcertante,
nelle tue mille fiammelle al silicone,
nei giorni insulsi senza più preghiere,
è la nostalgia
ed annulla le mie contorte visioni.
Nel decifrare il tuo sguardo,
io parola al contrario, parola di parole,
avvolto nel tuo seno, alla tua pelle,
quasi nudo per l’ultimo peccato
rintaglio la poesia del disinganno.
 

Qui risaltano i motivi, le “contorte visioni”, i giorni e le parole, insomma la inesauribile rapina alfabetica di Spagnuolo, ed il fiducioso, fecondo disinganno della sua poesia. In effetti – ci piace qui ricordare un bell’omaggio critico di Mario Pomilio ai tempi di Candida, un testo dell’85 – “rare volte la non significanza e impronunziabilità del vivere e la correlativa angoscia hanno trovato pronunzia più radicale, oltre tutto o soprattutto perché non schermati dall’espressività – e dall’ordine formale che ne consegue -, e piuttosto proposti attraverso i procedimenti preformali di cui parlavamo, precipitati verbali la cui natura presemantica e la cui irriducibilità a una sintassi sembrano esser lì a significare il brutale disaggregarsi della materia, il decomporsi nei suoi elementi primari di ciò che per convenzione chiamiamo vita, la ‘verità’ dell’esistere resa nuda e gelida e scheletrica, priva com’è dei veli che vi stendono sopra le capacità organizzatrici e le difese della coscienza”.

Sappiamo bene – e giustamente lo sottolinea Franco Pignatti Morano nella sua voce per l’einaudiano Dizionario della letteratura italiana del Novecento diretto da Asor Rosa – che “l’adesione a un’idea psicanalitica della poesia, intesa come affiorare di un elemento prelogico nell’esperienza mentale, comporta in Spagnuolo il rifiuto della sintassi vincolante, sul piano del linguaggio come su quello del senso”. Ma questa poesia rivela – e denuncia - molto di più, e cioè l’idea stessa, inestirpabile e immedicabile del male oscuro del vivere, ed il peccato sontuoso e immemore della scrittura che lo registra e lo cura, lo cura e se ne ammala, fra tragicomica realtà virtuale e frustrante, alienata irrealtà quotidiana, per dirla con Ottieri:

Io sono il mago,

ed hanno bevuto le scene
con la irrealtà del mio letto,
più volte sbilanciato dall’affanno.
Sono io il peccato,
e sempre altrove il dire cose
disperse, vaganti all’universo,
in un furtivo scherzo delle ore.

Tutta la costruzione poematica di Rapinando alfabeti, poggia su questo affannato sbilanciamento insieme emotivo ed espressivo, su questo sognante e poi risvegliato incubo linguistico, visionario e annebbiato, volitivo e inerme. “E sempre altrove il dire cose / disperse”… Equazione progressista e trasgressiva del fare (o dis-fare) oggi poesia, ben al di là (o perfino al di qua) di “un furtivo scherzo delle ore”:


 

Lo scorrere del verbo è destino 

e tributo.
Ad occultare ferite ti allontana
il conversare allibito della carne.
Dico anche il fascino dei sogni,
la caduta che morde le promesse
senza più segreti per alterne agonie.
 

Ed il rimando corpo/anima, “alterne agonie” e “fascino dei sogni”, fisicità e scrittura, è in Spagnuolo totale, avvolgente, endocrino, inestricabile. Tanto più se si pensa alla sua importante professione di scienziato dell’Uomo, e cioè, in particolare, di medico specialista in chirurgia cardiovascolare. “Lo sguardo-ipotiposi sul corpo-linguaggio nasconde una scelta, un’attrazione fatale dell’autore per il biologico (che porta in sé eros e thanatos), la vocazione di curare il mondo attraverso la scrittura,” – annota Massimo Pamio nella bella monografia che gli ha dedicato, Ritmi del lontano presente, uscita nel 1991 – “strategia di degradatio del reale ed anche privata ossessione che prelude alla frontiera del silenzio. Nei testi si accalcano più voci, spazi, soggetti diversi, prospettive differenti tese a ricondurre il corpo-linguaggio ad una perduta unità, ad uno stato di salute (fisico e spirituale) originario, nel quale la natura sia finalmente placata, per l’intervento del poeta, che nel Rito ha sacrificato se stesso e la sua voce”… E in questo senso, vogliamo ricordarlo, Fogli dal calendario, un’operina magistrale uscita nell’84, e dedicata alla difficile operazione, a Londra subita da un suo figliuolo, con l’impianto di due valvole cardiache in plastica, quella aortica e quella mitralica, va ricordata come una testimonianza poetica felicemente eccezionale, rigorosa e ispirata, nel panorama sperimentale artificioso e scontato di quegli anni. Ed anche se Angelo Guglielmi predicava bene (“ciò che definisce lo scrittore progressista è la convinzione che la letteratura non è mai quello che è, essendo piuttosto la sua negazione”, scriveva in Vero e falso nel 1968), i suoi adepti e sodali del Gruppo ’63 et similia avevano in realtà razzolato assai male, nei due decenni successivi – e oltre. Antonio Spagnuolo era fin da allora uno scrittore perfettamente, nobilmente progressista, proprio per questa sua capacità rara e schietta di versare sulla pagina, contemporaneamente, il suo malessere e la sua scommessa nella scrittura, vista come un estroso, inossidabile antidoto di sensibilità ed autocoscienza. Ed ancor più accelera, esaspera questo approdo teoretico, questa anamnesi lirica, col suo ultimo, reboante poemetto:

Slabbro il corpo confondendo i carnefici,

confondendo le membra
nelle strane notizie della sua commedia. 
Ed i luoghi?
Blasfemie di sguardi a calcolare
spirali di rose
o flagellando le forme del mio nome.

Io.

seguo con indulgenza il terrore

di una Croce
divorata dalle nostre assenze.

Così una poesia nata dall’oggettivazione estraniata del caos epocale – e creativo -, alla ebbra e naufraga deriva dell’Io, ritrova il suo soggetto incarnato e inscritto, il referente di sé medesimo: “Io: / seguo con indulgenza…” La Croce, poi, è la metafora rituale e consacrante, è la fine del nichilismo e dell’assenza… L’assenza intollerabile della poesia, della poesia del Moderno. Rapinato, l’alfabeto ritorna meglio in nostro possesso, ci salva dalla spoliazione della coscienza, dall’afasia dei valori, dalla morte dell’anima, dall’espiazione del corpo… In luce, l’ombra lunga e proiettata della Croce occidentale, risalta forse ancora più necessaria, ancora più pura di laicità: archetipo, ideogramma, alfa e omega del nostro alfabeto. “Sulle mani, fino a noi, la Tua lampada / resta sicura per lèggere in penombra…” aveva già scritto nello splendido esito di Io t’inseguirò, “Venticinque poesie intorno alla Croce” (1999), tutte vocate al maiuscolo, strane, raddoppiate (e ribaltate) stazioni d’una civile, intellettuale Via Crucis salvifica e redenta, redenta dall’umano prima ancora che dal divino… Il luogo si fa tempo, e il tempo luogo di questa fede ritrovata, rimembrata, risillabata dopo, anzi, nella dispersione, come un terrestre, fruttuoso fallimento della trascendenza, un’armonia suprema architettata e poi salvata di dissonanza:

Il luogo

che fuggivo da tempo,
era il tempo
che abbatteva sagome
nelle incerte minuzie.
 

Progressismo vero è dunque rifuggire il luogo, il luogo comune ed anche quello raro, resosi eletto e sintomatico. Il progressismo – Spagnuolo l’ha capito e ci è riuscito – è la poesia “divorata dalle nostre assenze”, crocifissa a se stessa, e a sé rinata, “a calcolare spirali di rose”. Un colloquio ardente, munifico o stizzito, ma insieme e ahinoi, ansia ritrosa, messaggio sconfinato, messaggio riperduto: “Un dialogo che da nessuna parte / traspare”.

2o novembre 2001
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders