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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Gianni Caccia: La Vallemme dentro
di Sandro Montalto


Gianni Caccia, La Vallemme dentro, Edizioni Joker, Novi Ligure 2000, pp. 84, £ 20.000

Il racconto inedito I ricordi del vecchio vallemmano che apre la raccolta La Vallemme dentro presenta già tutti i caratteri distintivi della narrativa di Caccia.

Il paesaggio non ci offre panoramiche e sguardi di insieme: quando la nebbia – autentica esalazione del territorio – non nasconde ed ovatta tutto, lo sguardo si concentra su particolari o su aree minime di territorio, così come l’azione (comunque più linguistica che dinamica) dei personaggi si svolge sempre in aree molto ristrette. Aree limitate e non ambienti angusti: non vi è nulla di soffocante in questi racconti, ma una sensazione di intimità e partecipata esplorazione dei concisi luoghi del ricordo e del desiderio. Il racconto inizia proprio con una «coperta di nebbia che si dipingeva agli occhi straniti» di Francesco, il protagonista, ed «era germogliata dalla terra stessa»: «nell’incanto novembrino» l’autore che svela che «solita e sempre diversa è la Vallemme». A questo punto lo strappo violento e poco dopo reso innocuo, procedimento tipico di Caccia: «Poi lo schiaffo del motore rovinò in quel sonno a riavvolgere la marcia, persino la nebbia, fitta e sicura a rimirarla dal poggio e ora si disfaceva di fronte all'auto per ricomporsi un poco più in là». Le nostalgie intuibili dei protagonisti, i rapidissimi guizzi panici, certe descrizioni farebbero immaginare una letteratura consacrata alla storia locale, ma proprio questo racconto, in cui ogni pretesto ha un sapore “paesano” (l’asfalto del ponte, «che rifatto dopo la piena aveva sortito la sua fetta di modernità»), suggerisce nei suoi sviluppi interni mete universali, in coerenza con la poetica dell’autore: vedere, anzi scovare, la portata universale delle piccole cose umide di terra, quella terra il cui «pulsare nascosto» è il tramite necessario e non il limite.

Il protagonista Francesco, che «si godeva scampoli moribondi di ferie rivestendo poco a poco la pelle dell’ufficio», viene poco dopo abbandonato da Caccia che passa a raccontare di Mastro Genio, personaggio stranissimo sulla cui origine «regnava un’annosa questione: per certo si sapeva solo che era della Vallemme, tanto gli era entrata nelle ossa da non distinguersi più, dove la Vallemme finiva e iniziava Mastro Genio», l’uomo «generato dal bosco», «individuo dai contorni di nebbia». Fatalmente, Francesco e Mastro Genio si incontrano. Inizia così una serie di racconti con i quali l’anziano intrattiene il giovane, «e sarebbe valso empietà metterne in discussione i lacerti che affioravano alle sue labbra». Cosa si dicono i due? Con precisione non lo sappiamo: Caccia (con l’unica eccezione del racconto Le lumache) inserisce pochissime battute di dialogo nei suoi racconti, i quali restano anch’essi contornati di nebbia, quasi i dialoghi fossero pause, squarci nel flusso narrativo che sottolineano la loro occasionalità e forse la loro rassegnata secondarietà. Sappiamo solo che Francesco inizia a compiere una serie di viaggi verso la casa nel bosco, desiderando sempre più «quelle parole dalla cadenza di risacca».

Seconda virata, terzo argomento, nuovo racconto di Mastro Genio: la storia del Marchese Pallino e di Santa Monalda, «una storia del più buio Medioevo» (si noti come Caccia finge di ignorare il lavoro di Régine Pernoud per assecondare il parlare comune) il cui protagonista a causa di un problema fisico non è in grado di esercitare il diritto che lo ius primae noctis richiederebbe, ossia «diritto che gli dava l’accesso alla virtù delle novelle spose». Segue una storia di pettegolezzi, mogli dalla lingua lunga, sommosse contro un signore incapace di regnare e violenze esasperate, affinché «sotto le grida di esilio, prigione e morte si insinuasse il proposito di un’esauriente lezione di virilità all’imbelle feudatario».Pallino invoca allora Santa Monalda, antichissima protettrice della Vallemme, la quale appare e, fatta sgorgare lourdesianamente una fonte, esorta Pallino a immergervisi e lo guarisce, tramutandolo in un Sade ante litteram al cui «ariete che viola la più casta fortezza» tutti inneggiarono.

A questo punto, con delicatezza notevole, si insinua la “vita vera”, quotidiana di Francesco, e lo fa proprio nel momento in cui essa inizia ad allontanarsi da lui, per far scivolare la narrazione in un territorio di competenza del fantastico, con i “capricci” della casetta nel bosco, Mastro Genio che sta togliendo le pulci al suo gatto, e poco più avanti l’avventura fiabesca di un marmandù. Alla fine, quando il vecchio, che «gattesco e bonario, aveva saputo leggere la scrittura che era il volto dell’ospite», «sorrise profondo» e Francesco «sorrise forte, in risposta», tutti i fili vengono tirati, in un accordo finale che è una degna conclusione.

Un altro degli undici racconti del volume che merita una descrizione particolareggiata sarebbe Brani di una partita, la cui forma a tratti inusuale, le storpiature linguistiche («fulba» per football), i personaggi imperdibili, la tecnica di una partita giocata solo per una minima parte del racconto ne fanno un gioiellino, un’epica calcistica degna di Osvaldo Soriano («fu dunque il giorno della partita, un giorno di soffoco illustrato da un sole che aveva ucciso la possibilità di vento; intorno era spoglio di verzura, resa nulla nell’immobilità sorda della canicola»).Meriterebbe ricordare il saggio Il tifo, malattia del corpo e dell’animo nell’antica Grecia (Edizioni Joker, Novi Ligure 1997) che Caccia, laureato in Lettere classiche e traduttore di classici greci, ha dedicato all’«universo semantico creatosi nella koinè» attorno al termine “tifo”. Esso dedica all’accezione sportiva solo l’estrema, ma significativa, nota: il tifo è «termine che, se nel greco antico non ha alcuna implicazione sportiva e quindi, tra i tanti valori che esso include, non contempla quello in cui l’omologo italiano è comunemente usato, nondimeno contiene nella sua polisemia aspetti che possono benissimo essere ascritti a molte manifestazioni del “tifo” nostrano, in particolare quelle che sembrano frutto di delirio e accecamento dell’intelletto, scatenate come da un procelloso vento domenicale» (pp. 12-13).

Un altro accenno andrebbe posto sul racconto La piena, la cui scrittura è una perfetta rappresentazione di quell’evento, una piena appunto di cui viene descritto il crescere e travolgere.

A questo punto preferiamo intervallare il commento alla sequenza di racconti con una brevissima sottolineatura circa il lessico utilizzato da Caccia, che è spesso prezioso e mai ricercato nel senso marmoreo del termine: vocaboli inusuali, antichi o dialettali pulsano della stessa vita dei racconti, ne sono mattone e cellula. Diamo una rassegna dei termini più inconsueti: «gotto», «abigeato», «imbola», «ligustica», «loffia», «crocidava», «inchiavata», «stracco», «plocco», «prolessi», «brancicare», «frugio», «atro», «braghe sarcite», «loquela», «rabidi», «mirifica», «polla», «altrice», «guaiolare», «meriggio agostano», «feria», «incignato», «gnaugnio».

Al lessico fa naturalmente da contraltare una forma raffinatissima, per evidenziare la quale bastano alcuni dei numerosissimi esempi di gustose espressioni «giorni di cenere», «quando un sole di gelo posa i suoi raggi tentennanti sulle pietre spoglie e incinte d’acqua, la vita ricalca la meditata inerzia del fiume», «pomeriggio di sole freddo che sapeva di calce e mattoni» (da paroliere, alla Paolo Conte), «pareti gonfie d’autunno», «un gesto abitudinario di un idiota qualunque, distratto a tutto quanto non potesse toccare col fiuto primordiale del suo naso» (a proposito di una pallottola di carta gettata da un finestrino), «il paese scivola sotto le mani, cavedano come la valle», «del mattino colloso che fuggii e schernebbiava, tutte goccioline di valle che si attaccavano e mi accompagnavano anche là fuori, nel vuoto», «anche a Cesco prude il paese», «osare con paura la mano», «Qui è veramente ordine, dopo essermi illuso della forma d’ordine che mi soffocava nelle città gioiello, […]; ordine è il poco impasto di acqua e terra e ancora acqua, latità indivisa prima d’ogni forma, che non si può ordinare», «il motore recalcitrava ad accendersi, s’imbizziva ai colpi del padrone ausiliati da sagre di cristi», «è l’imprevisto del giorno qualunque ma poi scivola via, la solita panciata di nervi».

Concludiamo la nostra breve indagine con il racconto L’uscita. Si tratta di un racconto allucinante: un uomo che sta percorrendo un’autostrada entra in una galleria, la macchina dal «cuore un po’ stracco» all’improvviso smette di funzionare ed il conducente è obbligato ad abbandonare il mezzo e ad incamminarsi lungo la galleria in cerca di un soluzione. Qui lo spazio e il tempo si ingarbugliano, la gravità impazzisce e i sensi vengono stressati fino all’estremo. In un vortice di sensazioni e pensieri il racconto ha un’impennata rapidissima che sconvolge il lettore fino all’ultima riga; più Poe che Lovecraft, l’autore ha creato un racconto in cui l’angoscia è soprattutto del lettore che si trova senza scampo di fronte alla lucidità del protagonista, impietoso nel rendere la situazione al lettore mentre essa si fa via via più sconvolgente ed inaspettata, fino all’assurdo. Macchina quasi perfetta, che si serve di non pochi momenti di forma altissima («Lo stesso chiaro slavato, servo diadoco al viola della burrasca che smuore sottende la spinta, indietro mi acceca diventa la spinta, mi ricaccia nel buio»), questo racconto è una pennellata antracite della quale non si può dire molto senza snaturarne il gesto caratteristico ed irripetibile, la soffocante regressione/annichilimento fetale.

Poi tutto si richiude, l’universo linguistico dall’odore di muschio si congeda dal mondo cittadino mentre «una cortina di nebbia stillava dai rami mescolandosi all’umore del suolo, dove la vita marciva nel sonno già gravida di risveglio, perpetuando il mistero puntuto del riccio».

 
4 luglio 2001
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders