Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Alfonso Guida: Il sogno, la follia, l’altra morte
di Sandro Montalto


Alfonso Guida, Il sogno, la follia, l’altra morte
Laboratorio delle Arti, Milano 1997  
«Il Segnale», anno XIX n. 56, giugno 2000, pp. 58-60

«Tutto è un caos di cosa nessuna»: con questa frase di Fernando Pessoa, una sorta di “nutto è nulla” leopardiano aggravato da un senso del caos tutto contemporaneo, si apre questa opera prima di Alfonso Guida, il quale altrove annota: «La mia realtà è un caldo minestrone / dove Tutto è Nulla». «E alzandomi dal letto, arso e disfatto, / mi dico senza senso: Sta’ calmo, amico; / il tuo Godot non è mai giunto; Pierrot / non ma hai smesso il suo pianto; Antinoo - / cuore bello e celeste se n’è andato / in oltraggio all’amore non compiuto». Così esordisce alla mattina il poeta-uomo Guida: con un senso di caos riprodotto nel microcosmo della sua stanza-mente e preso in un turbine in cui già si agitano Sandro Penna, Beckett, Verlaine (o Hugo? o piuttosto Baudelaire, Gautier, Verlaine o Emil Nolde?), Omero... 

Questa è la poesia di Guida: figlia di una sorta di estasi impura, coraggiosamente sviluppantesi in un andamento poematico spezzettato in frammenti che non sono episodi ma piuttosto filtri successivi, figlia dell’inquietudine di uno spirito decadente si sviluppa a partire dalla doppia origine di un animo autenticamente partecipe alle cose della vita ed allo stesso tempo intimamente partecipe delle cose letterarie, delle loro “imitazioni delle cose”, o delle loro “imitazioni di altre imitazioni”. Ho detto decadente, ma il termine non è proprio: di un certo “neo-decadentismo” l’autore condivide solo alcune tendenze: fondamentalmente egli osserva la decadenza, giunge a denunciarla e persino ad ingiuriare, ma poi proietta la sua voce al di là di tutto ciò, dove solo il vero significato o il Nulla possono attenderlo.

L’anima pulsante, fisica e fisiologica dell’autore si manifesta con un combattivo istinto, un essere sanguigno, l’idealizzazione della penna come «estremo segno del mio estremo vivere» e l’arrivo apparentemente necessario è un’invettiva quasi discendente di Gian Piero Lucini: «Ecco la barba pidocchiosa di Dio, / il Suo sguardo desolato, l’antica / speranza popolare di un Riscatto... / Credete, anche Lui, che Dio si è stancato», «Ma tu, Lettore ipocrita che ascolti», «Così, per non abbandonarti, Poesia, / trasforma le mie viscere in bellezza! / Sia chiaro: adoro l’alchimia! / O non cercarmi più». A volte la voce sente l’esigenza di gridare e si definisce ulteriormente il carattere di questa poesia, evidente anche nella conclusione di molti testi strutturata in forma quasi aforistica: «Non so ridere a un sole che non vedo. / Non sono mai esistito. E sono morto», «Non si pensa peccando di morire. / Il Peccato non esiste», «Amare è, dunque, stancarsi di sé». Il piacere è il grande motore della raccolta: un piacere che rischia talvolta di diventare dannunziano, energia che si sviluppa in un corpo troppo debole e ne brucia le carni. Ma non vi è in Guida l’isolamento dell’esteta dannunziano, né la debolezza, ed egli si riscatta sempre con soluzioni efficacissime. Fra questi sbilanciamenti si manifestano genuine, sincere e pure (nella loro impurezza) dichiarazioni d’amore alla passione, al desiderio degno di Penna: desiderio combattuto fra bisogno di esibizione e ritrosia; non però la vergogna del poeta perugino di fronte agli uomini, ma un metafisico indietreggiare davanti al Nulla che rischia di nascondersi dietro al soggetto/oggetto amato, ambiguo esoscheletro. 

Le sembianze di un mondo amato/odiato, abbiamo detto, sono sempre riprodotte in una doppia chiave di “vita” e di “letteratura”, e la messe di autori che traspaiono dai versi è impressionante (faremo solo pochi esempi). Si veda «Piove. Una ragazza vende giornali [...] E lo tradisce. E’ già sera»: da D’Annunzio a Quasimodo, per approdare a Pavese («Piove / il madido asfalto / rispecchia i pallidi visi dei lampioni...»: Estravaganti scelte) e posizionarsi poi fra Montale e Caproni: «Si volta, mi guarda, escogita. Pensa / a un posto da trovare alla stazione / tra gli esuli negati dalla Storia». Parentesi irreali, passaggi quasi ironicamente idealistici (vedi Favola Marilyn: «Amo te, mia musa, anima stuprata / dal tempo, compagna di chi è solo / e nella notte al tuo Sogno si abbevera») sono visibilmente viziati da espressioni fruste, da alcuni cliché che sporcano il dettato ed interrompono un flusso rabbioso ed indignato. «Non quest’arido mondo / in te io adoro, ma quel grido immortale / di gelida tristezza...»: un “arido vero” che vorrebbe essere leopardiano ma risulta obliquamente montaliano, corteggiato o maledetto che sia, manifesta un tentativo di dare “dignità libresca” ai versi, i quali esisterebbero benissimo in virtù della loro profondità portata alla luce con le unghie della rabbia etimologicamente “filosofica”. Poi Guida torna alla sua voce: «Ma adesso torno a te, odioso ragazzo / del peccato, trainato dal fardello / di un comune destino di mistero...». Vi sono molti passaggi bellissimi e pregnanti, si veda: «Nulla cambia. Nulla potrà cambiare. / Se l’uomo è freddo boia di se stesso / gioverà mai lapidarsi nel vento / delle stragi? Religioso esilio mio!» dove soffia un vento che certo è passato sopra le pagine del Qohélet. Una vena pirandelliana («Non capirò mai ciò che vive fuori / di me, l’altra realtà. E’ un avventato / slancio, soltanto un pensiero, duttarmi / fuori del mio Io per scoprire che c’è Altro») sublima in una affermazione forte e quasi decisa a rinunciare alla razionalizzazione, ad accettare l’offesa della molteplicità: «La mia realtà è un caldo minestrone / dove Tutto è Nulla» e «il Nulla ha lo stesso colore / del Tutto», o in una sorta di rinuncia alla filosofia nella “definizione” di Adorno secondo cui «la filosofia è lo sforzo permanente e quanto si voglia disperato di dire ciò che a rigore non può essere detto». Ormai secondo Guida «Nessuno potrà dire nulla. Nessuno può / parlare di rinascita. Spostarsi / di un solo metro più in là è ritrovarsi / nel cono senza luce dell’Incognita». Invito anche il lettore - per fare solo un altro esempio - ad indagare nel bellissimo poemetto Al momento del crepuscolo la rete di riferimenti che va da Proust a Gozzano passando per gli espressamente citati Pessoa e Gadda, dai già citati Pasolini, Penna, Quasimodo, dall’Iliade a Kavafis.

“Purificata” la propria voce nel lavacro dei Maggiori, Guida torna ancora una volta ai suoi accenti più caratteristici: «Onan mi protegge: umana lacrima / di amore che è calda solitudine. Dio si nasconde in perpetuo. Si dice / da anni che è morto: a che serve invocarlo?». A purificazione terminata l’autore è insomma nuovamente desideroso di sporcare il proprio dire, di cedere all’invettiva e al sarcasmo, e con disinvoltura riduce un assunto controverso e fondamentale a titolo di giornale, sembra volerci dire che a lui non importa l’avallo dei Grandi - ma come è falso! - e può permettersi di canzonare anche un “forte enigma”. Questa perpetua oscillazione scandisce il tempo dei versi raccolti nel libro. 

Non oscillazione ma tragico passaggio, invece, è quello dalla vita al peccato. «Al momento opportuno / sbarazzarsi del peccato - / il peccato rinnegato vivendo / nel sacro cimitero sconsacrato / del vivere violento»: un “vivere violento” che rimanda al romanzo di Pasolini in cui la vita dei protagonisti si esprime nell’azione più che nel pensiero, essi sono fuori dai ruoli e dalla storia, ma sanno riscattarsi con un gesto generoso pregno della stessa spontaneità che genera la violenza. «Oggi mi accingo a passeggiare per vie / fulminate di ragazzi, ventagli / sensuali o corpi d’amore negato, / negato per la folle paura di morire / solo, solo e crocifisso sul muro / vergognoso del delitto, dell’insulto o del sesso...»: come Penna la sensazione di avere provato un piacere lascia indelebile la traccia del peccato, un peccato sentito come assurdo eppure ineluttabile. Ed il peccato sembra avere come insulsa conseguenza la malattia, ossia il castigo volgare: «la paura dei rimpianti, del buio, / l’insaziata paura dell’aids»... «Io inseguo tutti i giorni la Natura Virile! / La rincorro perché l’amo e se l’amo poi la odio! / La Verità Teologica mi uccide». Tragica e centrale resta, però, nonostante la profonda condivisione di toni e temi, l’opposizione di Guida alla frase di Penna utilizzata ad epigrafe: «Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi». 

L’alternarsi di rassegnazione e ribellione, la tensione verso l’ignoto che coesiste con l’invito a provare ogni piacere terreno, la vicinanza di alto e basso («di piscio, di cetonie annegate nel silenzio, / di sterco, di antico improbo adulterio»), l’intrecciarsi dei motivi dell’Ecclesiaste e del “carpe diem” oraziano (lontanissimo dalla “bella giovinezza” di Lorenzo il Magnifico!), la percezione del Supremo ora come Fato cieco ora come Dio personale apostrofato con irriverenza, il perdono che Guida chiede al Dio ed il perdono che egli dà all’uomo per aver creato questo Dio, persino la “cambiale del Paradiso”, questa miscela esplosiva da maneggiare con infinita cautela fanno di Guida un erede singolarmente degno del poeta-matematico-astronomo persiano Omar Khayyàm, autore delle celebri Quartine (Rubaiyyàt).

Ma di fronte alla Morte, «l’antica sorella della Noia», «la mistica sovrana, / [che] sarà volgare lacrima del Nulla», ora che «volata / è la Poesia, creatura che adorna / il mio silenzio, dipinta, cancellata / da muse di sfuggente verità», «ogni entusiasmo è stato ucciso / e vaga è la passione per la lirica» e «il Dolore si fa prosa», anche le sfrenate pulsioni perdono la loro propulsione e ripiombano nell’angoscia: «com’è vano illuminare il nostro corpo / per rendere più falso e speranzoso / l’Atroce Abisso». Ecco che si definiscono “Il sogno, la Follia e l’altra Morte”: «Il Distacco Totale, il non-pensiero: [...] nien’altro che Sogno, Anima e Silenzio». Il Nulla come Silenzio, un’angoscia testimone della presenza costitutiva del Nulla come secondo Heidegger. Ma dal silenzio si leva ancora, caparbio ed estremo, un grido di protesta, un colpo di spada che denuda un’altra ipocrisia: «[una donna che] era stanca, con la fronte rugosa, / smarrita nell’inutile preghiera / della sera»... «Ma perché, Odiosa Luce, Inesistente, / nel mio sguardo è l’emblema della Morte?». 


27 maggio 2001


Indice della sezione
Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


Per informazioni, si prega contattare:
Otto Anders