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Recensioni e note critiche
Marco Furia, Minime topografie - Forma di vita
di Sandro Montalto


Marco Furia, Minime topografie, Anterem, Verona 1997
Marco Furia, Forma di vita, Anterem, Verona 1998

«Il Segnale», anno XIX n. 55, novembre-febbraio 2000, pp. 53-56

Minime topografie racconta effettivamente qualcosa. [...] E’ impossibile capire se queste azioni appartengano ad un unico personaggio o se invece ognuna corrisponda ad una figura ben distinta dalle altre. Comunque non ha molta importanza, perché ciò che lo scrittore vuole descrivere è il compiersi dell’azione in quanto tale, sciolta [...] dai nessi causali con quanto procede e segue [...]». Il postfatore Stefano Strazzabosco fa opportunamente i nomi di Francis Ponge, Claude Simon e Georges Perec (naturalmente da considerare solo come referenti) per questi testi che descrivono semplicissime e brevi azioni tendendo «all’oggetto come dato isolato e compiuto» mentre l’autore «mentre conferisce a quello uno statuto ontologico che lo assolutizza, riduce la facoltà dell’essere umano alla semplice registrazione dei fatti», un processo di oggettivazione «sicuramente premeditato» (si legga Efelidi, Anterem, Verona 1989, in cui ci si chiede quale sia «la quantità massima d’obiettività contenibile nella rappresentazione», pag. 9). Subito salta alla mente un altro nome, quello del Paul Valéry saggista e prosatore che scommette sull’ordine mentale come rimedio al caos, opponendosi alla tendenza novecentesca di rendere l’idea di un caotico esistente tramite un uso magmatico del linguaggio e l’esplorazione dell’inconscio. E un altro impegnativissimo nome ancora si impone, quello di Samuel Beckett: si pensi a certe sue prose che lo accomunano, in una certa immobilità e morte dell’immaginazione (qui svelata nella rinuncia-impossibilità a narrare in modo personale), alle tendenze oggettivanti di Furia. Sintatticamente viene in aiuto all’autore una abolizione quasi totale degli articoli, un insistito uso dell’ellissi e «l’uso sistematico di frasi dipendenti introdotte da participi per lo più passati, o da gerundi» (Strazzabosco), per non parlare dell’espediente della perfetta uguaglianza fra prima e ultima prosa, a suggerire un insieme di azioni che si svolgono in una sempre più disumanizzante circolarità.

Ultima tessera in questo coerente percorso è Forma di vita, volume il cui titolo proviene significativamente da una frase di Wittgenstein: «E immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita». Qui vale quanto detto per il precedente volume, salvo che come osserva Gilberto Finzi il titolo «sembra accostare, antifrasticamente come di dovere, la letteratura al suo improbabile referente esistenziale». In questo libro «la linearità del discorso globale si spacca e il testo si divide in tre parti: nella prima mimando egregiamente il passato con prose “di situazione” [...]. Nella seconda [...] il passaggio è quello dalla prosa della prima sezione al verso arido, aspro ma battente e ritmico [...]. Si arriva nell’ultima sezione a una vera e propria versificazione “libera” che diluisce il discorso in segmenti brevi». In un’evoluzione certo non solo formale, quella di Furia appare un’esperienza importante e che può riservarci frutti ancor più radicali. 

27 maggio 2001


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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