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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Francesco Rivera, Senza stelle
di Raffaele Piazza


Francesco Rivera, Senza stelle
Crocetti Editore, Milano 1999, pagg. 136, lire 20000
 

Francesco Rivera, poeta nato a Roma nel 1944 e residente a L’Aquila, con un percorso creativo già notevole, anche se non ancora ben valutato dalla critica, giunge con Senza stelle, opera corredata da una puntuale e approfondita introduzione di Plinio Perilli, al più alto livello della sua maturità espressiva, consegnandoci una raccolta compatta, nella quale la prima qualità da segnalare, costante in tutte le scansioni, è quella di una pressante e, nello stesso tempo leggera forza icastica, collegata intrinsecamente ad una densità metaforica precisa ed elegante, da una sapienza nel costruire immagini che, pur elaborata e raffinata, ha il pregio di essere raggiunta senza minimo sforzo apparente. Scrittura assai precisa quella di Francesco Rivera, per niente contaminata da manierismi, che ha il pregio di mantenersi costantemente alta.

Sarebbe riduttivo affermare che la lucida disperazione che trapela dalle immagini sia il primo e saliente dato di quanto il poeta ci presenta, considerando anche che Senza stelle è stata composta in un momento difficile dell’autore, segnato da una malattia poi in seguito superata: effettivamente in un tessuto semantico, nel quale un misticismo laico gioca una sua parte importante, trapela una forte tensione che, si potrebbe dire, ad un primo approccio, disperata; tuttavia, non è mai presente in queste pagine uno sfogo gratuito, quanto improduttivo, dal punto di vista innanzitutto estetico, e Senza stelle, esprime, invece, la capacità del poeta nel confrontarsi oggettivamente, innanzitutto con la sua realtà naturale ed esistenziale, cercando la presenza di una divinità, di Dio che spesso è invocato, con un atteggiamento mai di vittimismo, quanto piuttosto con il tentativo di renderlo immanente, vicino, riproducendo in molti parti la tensione della lotta con l’Angelo. In Senza stelle, in altri termini, si attuano una redenzione e una catarsi, proprio attraverso il mezzo della parola poetica, tramite la quale, si raggiunge anche una forte tensione che è rispecchiamento anche di un’innocenza che l’autore cerca di raggiungere e, in ogni caso, si può immaginare che la redenzione più completa viene raggiunta nel momento in cui l’atto dello scrivere termina, l’opera è conclusa e per il poeta inizia la fase della guarigione che ha le radici proprio in quello che è stato da lui detto e che, in particolari momenti, vagamente, può essere stato, una disincantata preghiera.

Come afferma Plinio Perilli, in questa poetica, non c’è mai una raffigurazione del reale tout-court e nemmeno del reale espresso attraverso un’ansia figurativa, ma piuttosto una stabile tensione estatica, un assoluto a cui tende la parola, nel suo impossibile, quanto produttivo tragitto di avvicinarsi all’indicibile: vi è, in altri termini, una costante tensione, in ogni verso, ad un limite, che continuamente si sposta e una inesausta ricerca che ci fa riflettere anche sul non detto, a quello che resta presunto. In connessione al tema di Dio, c’è il tema della morte, dell’inquietudine:-/La morte è generosa, comunque,/ ti fa stare ancora un tantino al solicello/ metre tu la guardi spaventato/ e ti fa tornare anche domani/ e magari abituarti al solicello/ senza falciare, senza dire il male./ Dio ha pronunciato oltre metà della/ mia vita senza stelle/ che io possa piangere ancora un po’/ di questo/ e allontanarmi su zolle di terra/ a rinfrescare il volto/ nella simpatia delle “zone”/ nell’arbitrio della “luce”./

Meditazione creaturale e cerebrale, i cui accenti, le cui venature sono ben lontane da un quotidiano, ma quasi sempre a dipanarsi in spazi e tempi indefiniti, dove pare che si possa, di tanto in tanto anche trovare il ristoro di quel solicello, presente in attesa della fine, se anche l’ingiusta natura può darci un minimo di libertà proprio sotto quei tiepidi e benefici raggi, senza falciare, senza dire il male…

Il libro è scandito in tre sezioni: I pargoli si appropriano delle stelle, I pargoli entrano nel cappello, I pargoli abbandonano il cerchio: è evidente che il ricorso all’immagine dei pargoli, riporta il discorso al suddetto tema dell’innocenza, vista anche come privilegio, se sono proprio i bambini, nella loro verginità morale a potere appropriarsi delle stelle.

Fuori da qualsiasi corrente o tendenza, quindi, Rivera riesce a creare una poetica del tutto personale, nella quale l’io lirico è sempre al centro: la forma diviene un’unica cosa con il contenuto, così il significante con il significato, attraverso una riflessione che è, nello stesso tempo, cosmica e umana, con vene di affabulazione, pur essendo precluso a questa poesia, ogni tono narrativo:/ Era il governo delle estati calde/ fumose quasi, detestate ovunque/. E in questo tempo ci vedemmo cari/ e rinacque risaputa nostalgia/. La rupe mozza e l’elettrodo infuriato/ fiato di lupi e neve calda/ ovunque vedi la persiana aperta…/… Dio raduna la mia incredulutà/ esaudisci il fieno, bracca lo squalo orrendo nel mio mare//.

1 marzo 2001


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders