VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
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Sans passion il n'y a pas d'art

Calamus
Documenti


Due ipotesi per Emilio Villa
di Pietro P. Daniele
1978

   
Lo scriba. (Ipotesi prima)

Ove venisse riscontrata nelle sue opere
un’attività/funzione testamentaria di valori da trasmettere secondo codici garantiti da un “imprimatur” strutturale, Villa a buon diritto potrebbe reclamare il complesso armamentario “scientifico” di interrogazione, di analisi, di ermeneutica. La necessità consolatoria (retorica) di un’indagine/analisi sarebbe allora il prezzo “logico” da pagare ad ogni livello ad una poesia che vive e fonda il suo essere forma su un modello discorsivo e grammaticale, proprio dello scriba, d’altronde, incontrarsi circolarmente con se stesso e riconoscersi nonostante i giochi combinatori, sapientemente tra scritti, della Parola. D’altra parte, in una simile eventualità, non sarebbe il Villa-scriba a reclamare d’essere messo agli atti; non ne avrebbe infatti il tempo. Perché, a pensarci bene, nell’obbligo amanuense e nella funzione testamentaria il rapporto col tempo come rivendicazione a trasmettere se stesso, è automatico; resterebbe aperto, semmai, il problema dell’amministrazione economica di sé, discorso interessante da affrontare se non fosse inficiato da una grossa monotonia: in un modo o nell’altro, lo scriba vende se stesso come promessa di godimento, partecipazione intima, apparizione/sparizione dell’ordine linguistico, messa in gioco della sua stessa castrazione (tutta energia sessuale sprecata) con proiezioni universalistiche. Ora, se lo scriba è l’urna funeraria in cui si mima la ricostruzione del cosmo, con le parole/cenere ricomposte, conservate, tramandate (passaggio esse stesse da un non senso biologico ad un senso culturale/cultuale) il supporto logico di tale funzione testamentaria è un pre-testo come intuizione univoca del mondo, misticamente accettata e sacralmente tradotta. Non solo. L’economia stessa della sua funzione consiste in una scansione logica e discorsiva del processo, in cui l’esperienza di secoli ha fondato equilibri simmetrici e contraddizioni risolte ed egli sa pure, ma finge di ignorarlo, che la necessità della sua funzione poggia su una in/differenza per il mondo stesso. Il suo compito è quello di espropriare il mondo della sua eterogeneita e di creare un rapporto “inventato”, grammaticale che se ha un senso lo trova nell’irresponsabilita che lo caratterizza. Donde il privilegio della sua posizione, senza dignità, senza diritti e senza doveri, in una condizione biologica parassitaria che egli vive, nel migliore dei casi, con la protervia e la sfacciataggine di colui che “ha ragione”. Il compito dello scriba è identico a quello della polizia militare: impedire che l’eccesso come individualità, come possibilità a gestire se stessi, si riversi fuori da una frattura del codice per diventare arbitrarietà di un linguaggio e di
comportamenti. La prescrizione come teofania non può ammettere il diverso dall’Uno. E la civiltà come teofania è salva. “La nostra civiltà ha poco da temere da parte dei colti e degli intellettuali. La sostituzione dei motivi religiosi ai fini del comportamento civile con altri laici avverrebbe in loro senza rumore, inoltre sono essi stessi in buona parte portatori di civiltà. Le cose stanno altrimenti a proposito della grande massa degli incolti, degli oppressi, che hanno ogni motivo per essere nemici della civiltà”. (Freud). Il mito di un “grado zero” non tanto del dire, quanto del vivere, di un silenzio come espropriazione “terroristica” di una facoltà incontrollabile, perché equivoca e imprevedibile, passa attraverso la funzione notarile e rogatoria di una scrittura/archivio in cui tutto è chiaro tranne il suo diritto ad esserci. Ma la sua cittadinanza è inevitabile, il suo diritto si fonda sulla morte del biologico, sulla morte del mostruoso che è il desiderio stesso di una comunicazione/altra, sulla protezione iterativa di un universo accentrato. È l’alfabeto significò potere, autorità e controllo a distanza delle strutture militari “. (Mc Luhan). La cancellazione insieme con l’indipendenza, del diritto ad essere “luoghi”, “spazi”, “buchi neri” di energia, passa attraverso una scrittura che ci consegna al paradigma, alla necessità/significazione, recupero costante di possibili implosioni. Lo scriba, come pensiero semiotico, ha bisogno infatti di un universo esploso, cui applicare un processo grammaticale, instaurazione di un rapporto di civiltà e di colonizzazione cosi esasperato che “di una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda”. Laddove l’implosione è l’enigma come riorganizzazione/rappropriazione di una complessità di funzioni e di spazi (a partire dal corporeo) contro l’Estremo Semplice, lo spazio teologico.

Villa. De/monstro. (Ipotesi seconda)

L’espulsione del possibile come
vivibile avviene attraverso un costante rimando al mondo delle idee oppure un ‘assunzione del reale come catalogo mediante l’uso impietoso, perché categorico e formale, di un’intelligenza alfabetica di cui sono caratteristiche la pertinenza, la coerenza, il ritmo, l’economia strutturale. Il principio d’identita del segno che è poi la garanzia di “normalità” per un’instaurazione del non-umano, funziona da vero e proprio carattere genetico ereditario e non è poi tanto difficile ritrovarlo, sotto forma di virus (pur con le dovute variazioni sul tema) nei tanti scribi nostrani. Il fatto è che troppo spesso, vuoi per quella strana forma di complicità che è l’idiozia, vuoi per un’innata aspirazione alla menzogna e alla mistificazione (irresponsabilità propria del politico e del sacerdote: Dracone e la Pizia), un’assoluta non-volontà di trasgressione è stata “venduta” per diversità effettiva come progetto/altro. L’entropia di alcuni testi, infatti, non scalfisce minimamente quel progetto di Salvezza (del sapere, del ruolo, dell’etimo) in cui lo scriba identifica la sua esistenza; anzi, del sapere giustificativo pietrificato in cultura,
dell’universo come luogo chiuso, tale entropia risulta essere la citazione, come incapacità a mettere in discussione totale il rapporto scriba-progetto metafisico. È la paura di riconoscersi soli e la conseguente omertà, la paura di una scrittura come luogo in cui la diversità ha cittadinanza storica come gioco dialettico raffinato, funzione della Verità. E lo scriba tiene il diario di questo luogo dove la “distanza da riconquistare”, l’espropriazione da ri/vendicare diventa misera anagrafia, come “ trascrizione (dispersione-ri/concentrazione) della stessa logica” (Caruso). Oppure le istanze “radicali” diventano mitologia di bisogni anti-istituzionali da soddisfare. Perché quel che conta nel ruolo dello scriba mercante è il parlare comunque, è lo scrivere comunque, rappresentare il rischio del rifiuto e fame vivere il disagio fino in fondo, tranne poi a salvare capre e cavoli col guizzo finale di un’interrogazione lasciata sospesa: proprio quando la mitologia dell’uomo nuovo, della “rifondazione” poteva diventare la critica spregiudicata degli stessi meccanismi di interrogazione. Allora, proprio allora, scatta la furberia di chi vuol rimanere nel gioco, nell’amministrazione della cultura come patrimonio di San Pietro, di chi scambia la sua autonomia con la rappresentazione di essa nello spettacolo verbale. Ed è proprio allora che la sospensione della domanda riafferma, con la forza di un discorso binario (si/no), l’ossessione di un Verbo non discoperto e onnipresente e, perché tale, Imperativo. A questo punto bisognerebbe far cuocere il discorso dall’altra parte, dalla parte di Villa-ombra, onde avere una torta critica impeccabile. Ebbene ci piace sottrarre il lievito di un paragone, di una dimostrazione sicura e acclarata, di un Villa gastronomico e semiotizzabile, semantizzabile, analizzato, frugato, tesaurizzato. Potremmo ripetere la gioia scritturale di mangiarne le reliquie, di salvarlo, di disperderlo al vento, di fame un diario e metterlo in bottiglia. E ci troveremmo, come lui stesso dice in “Attributi “, tra le mani paralitiche il suo provocatorio, il limite Niente. Siamo insomma su un terreno minato: da una parte il nostro desiderio di fuggire da lui, dai suoi versi di Oramai, di E ma dopo, suoi margini incontrollati nell’“omertà su”, dall’altra parte la necessità (fino a che punto giusta e fino a che punto “nostra” non sappiamo) di un minimo di capacità conoscitiva su questo luogo che ci ostiniamo a chiamare Villa, quasi a esorcizzarlo in un banalissimo gioco nominalistico. E se fosse altrove la ragione di questo nostro atteggiamento, del nostro desiderio a fuggire da lui, dai suoi versi di Oramai, di E ma dopo, di Si, ma lentamente? Forse il nostro è il disagio per la mostruosità stessa di una scrittura in cui “l’etimo corroso dalle iride foniche, / l’etimo immaturo, / l’etimo colto, / l’etimo negli spazi avariati, / nei minimi intervalli, / nelle congiunzioni, / l’etimo della solitudine posseduta, / l’etimo nella sete,...” diventano il corpo mistico provocatorio, i gangli informi di un “corpus” da sempre semiotizzato, oppresso, annichilito, che adesso si tocca, si palpa, monta su di sé, dirompente nella “pienezza dei tempi”.
Il mito forse dell’incarnazione? Piuttosto, noi crediamo, lo sforzo di rendere conto a se stesso del proprio essere-tempo, del proprio scorrere in un non-luogo comeconsuetudine verbale, come società conoscibile unicamente per litteras. È l’ipotesi concreta di un linguaggio/mondo in cui lo scarto mentale, vissuto come stravolginiento di ogni schema e di ogni limite, brucia le sue stesse ragioni di verbalismo esasperato fino a tagliarsi i ponti con quel non-luogo rassicurante e “reale”. Oltre a quanto di sciamanico, di esoterico c’è nella sua poesia noi piuttosto proveremmo a guardare alla distanza incommensurabile che, appunto, egli ri/stabilisce da quel non-luogo/ambiente dove ogni “concatenazione di segni nello stesso tempo vuoti di significati, può salvare con poca fatica dal silenzio costernato di fronte all’inesplicabile”. Il che significa, allora, andare a ricercare il colpo di mano, il gesto di assunzione e di padronanza che Villa realizza nei suoi testi a scapito di quelle condizioni di articolazione logica che ogni comunicazione falsamente ”trasparente” o “idealizzante”(il che poi è lo stesso) presuppone. E questo colpo di mano egli l’aveva annunciato quasi in sordina: “Parlà, parlà de sender, de rusada, parlà / cui occ saraa, cui laber che cicaren / de per lur, sensa vurè, parlà / l’é cume di: “Nagott. Pasiensa. Amen…”. Parlare come vagabondaggio, come un continuum il cui senso più probabile e in un esperienza come superamento del non-luogo in cui la morte ha eletto il suo spettacolo.


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