VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
Electronic Center of Arts

Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art

Calamus
Documenti


Emilio Villa, audessous
di Emilio Piccolo
1976

   
Angoscia del commento: un foglio trasparente lo separa dal silenzio, dalla decisione come caduta nella follia, nell’infanzia di chi non sa parlare e avverte il rischio della voce come espropriazione, mar gine di una risposta esaurita da sempre nella sua propria istanza, nel canto delle sirene che invitano alla morte o all’ossessione del desiderio coatto. Perché si tratta ogni volta di ricominciare da capo, di cancellare la metafora dell’occultamento, della Tavola cifrata nella sua distanza totemica, che costringe il commento al ritorno in sé alla sua funzione servile, al privilegio secondo della cucitura, come afasia della voce dopo la dizione, definizione metafisica del centro assunto a fenomeno. Così l’emissione pneumatica realizza il genere e il permanere, nella rappresentazione, del sacrificio, dell’angustia del soggetto saldato all’organizzazione del processo metaforico, alla riduzione del volume come concentrazione eterogenea del tempo, che sovraimpressiona dimenticandolo, chronos ed aion, a disinnescare la virulenza del referto, che ostinatamente si sottrae alla linearità, cui si vuole ridurlo, del discorso: accumulato su se stesso, stravolto e interrotto per non essere acquisito a discorso, illuministicamente ri-conoscibile. E allora il commento non può non vivere all’infinito, la sua infelicità, manoscritto infinito che ha perso ogni certezza di prescrizione, tautologia scentrata della trasparenza, di un nodo di opacità che  resiste alla dissolvenza, esso stesso dissolvenza in progress, limite che  continuamente si rende assente, decentrandosi, sottraendosi ai prolegomeni, defungendo come testimonio e garante tra lettura e scrittura, intendendo ad una inauguralità, (contro ipostasi idealista di mondo-storia), che l’accesso alla de-formazione dell’interrogazione pura, come possibilità sempre differita e differente dell’Altro, della genesi sottratta alla serializzazione logica, al filo (dis)continuo del progetto, dislocato e minimalizzato. Di qui l'inganno come ipotesi di energia: la sua ri-petizione, la sua demonica, incantatrice, figura di travestito che gioca con le maschere, nel lavoro lungo tra regime diurno e regime notturno dell'immagine fino a stravolgere il tempo che nella grammatica, parlandola, la scandisce. L’antagonismo demonico che si realizza (tra Thoth e il travestito dell’inganno) marca allora la perdita progressiva e felice del sapere, la sua deiezione nel corpo onirico del delirio, che lo reperisce, quand’anche non lo taccia, come citazione (di citazione), pretesto, assoluta causalità della significazione storica, elocuzione archeologica che denuncia l’ordine come controfigura terroristica della delega reciproca di mondo e parola: asobica ateticità delle curve, lungo le quali avviene, in una sorta di enimmatica erranza, l’incontro-scontro con Villa, Emilio Villa.

La scena: il profilo clandestino del bianco. E poi il rombo, l’apparizione demente del caso. Villa ama il suo demone, una facilità profonda lo possiede in un movimento che lo trasgredisce ad occhio contumace, ad una latitanza dalla memoria che cancella se stessa e la sua interpretazione, rivelando la sfasatura che la costituisce e sollecita nella dismisura: esistenza dimenticata nel riposo, nell’entropia dell'invisibile Villa ama il suo demone, e lo mima, per entrare nel regno dei demoni: come quelli, non sopporta i concupiscenti eunuchi della storia; e ciò senz’altro la prova di una sua mancanza di pregiudizio verso la semplicità del testo. Una versione metaforica, un disgregarsi della puntualità come seduzione. Fluttuante e straniera, la sua parola in deriva e la grammatica non può non accettarsi come lacerazione di simulacro e fingere la conoscenza dell’impatto, il ritorno fondamentale dello scempio: derivata, la sua direzione quella del chiasmo, una episteme rappresentata, duplicazione pubblicatadella grazia, da cui divaga l’avventura come contaminazione apocrifa,chimismo che metamorfizza i dettagli omessi, il luogo comune della visibilità empirica stravolta dalla tentazione alchemica. Medusa allora vittima del suo inganno e l’identità, forzata alla conoscenza progettata come processo, risulta un dato irrisolto, un’opacità della complicazione/complicità del discorso nelle sue imbastiture, cartesianamente indotte alla tautologia metafisica del nome, al suo residuo feudalistico, che si riappropria dell’assoluta sciolta transitorietà del divenire, metabolizzato al regesto proliferante del catalogo. L’ipoteca che ne sortisce il deterrente della definizione, la magia contraffatta della ricchezza interiore, che salda al fascino della pura idealità la gibigiana del quotidiano, in un rinvio allo specchio come immagine dell’io e dell’altro, coinvolti così nello stesso discorso di ripetibilità, di interlinearizzazione di idios cosmos e di coinos cosmos, senza cui non c 'è storia né metastoria. E allora ciò che ri-vive, nella falsificazione storica, l’iniziazione dell’istante, che folgora nel passato il recupero generale del senso, proiettando nel disegno re sistente e insistente del futuro le metamorfosi senza corpo dell’adeguazione, elevata a criterio generale di ermeneutica e pratica commestibile. Incantesimo del ritratto invertito, che sorprende una latitudine di posa insospettata, scandendo il tempo di una ricerca del volto nel fondo del bicchiere, (che si sovraimpressiona al bicchiere), suturando la distanza, promulgando la leggenda dell’unità che dilapida la corporeità dello smarrimento e del non capirci nulla nella compiutezza della deviazione.

Lo splendore di una simile pratica impagabile, e il privilegio della nostra parola, stornata alla disperazione del commento, non può che metastatizzarne il riflesso, costretta a dirsi, a celebrare in un delirio di scatole cinesi l’oniricità complice del suo corpo. Certo: la mimesi violenta, e la copertura analoga degli spazi rischia l’articolazione, in cui la costante puntualità del caso di-vaga a funzione conoscitiva, a pura modalità sublimante degli scarti suicidi, degli enimmi in opposizione. L’eterogeneità si ritrova come in-differenza (di word e world), e il suggerimento castrato nell’insopportabilità della caduta dal rigore. E tuttavia ciò che resta relegato al margine o anche al centro un volume, un defilarsi del travestimento, con cui, ridotte le distanze e invertite le parti, rinviare alla lontananza del suo profitto la metafora normale del senso come potere, atto storico di violenza. E allora la figura del delitto investe, innanzitutto, la volontarietà della morte, il contrabbando dell’origine finalmente contraddetta, falsificata, occultata sotto la biffatura frenetica e ripetuta del cambio istantaneo, di una maschera-corpo che vomita voci innominabili, brandelli di occhi non reperibili, relitti coassiali di memorie senza fisionomie. Ma Villa ama il suo demone, si è detto: il suo lavoro è senza fine, come un telaio di Penelope, in cui ogni esodo è una iniziazione, un rito di passaggio, una fornicazione innocente. Così ogni forma è forma della caduta tat tvam assi — nella unificazione biblica del simbolo-cosa, o anche la dissolution de la série dans le group en fusion, di un rigor mortis che congela la vita nell’oltraggio della eternità. Una e-lusione estetica, una trama tessuta in una tragedia in cui togliere i vestiti è togliere i vestiti nuovi dell’imperatore. E tuttavia, anche privi delle convenzioni fisse a riferimento, non si può vivere senza fine il senso della colpa e dell’espiazione e la metafora esautora il limite temporale del reale, sopravvivendo ad esso. È evidente: per Villa il post-fatto intrattiene con l’evento lo stesso rapporto intercorrente tra la fanciulla e il suo canuto amante. Eppure, rappresa nell’incubo, la memoria (s)materializza le tracce dell’oggetto, conuna bellezza quasi didascalica, in una tensione di lavoro violento, in cui il montaggio proiettico sfugge, come un crurispicium oracolare, alla verosimiglianza, e il naturale è l’irriconoscibile, il segmento non inverabile nella prospettiva clinico-oculistica del luogo comune, dove l’iscrizione dell’azione mistifica il suo carattere di doppio-dopo, promuovendo la simultaneità fittizia dei tempi. Solo così il territorio limitrofo, ovvero la possibilità dei riferimenti, si sottrae alla riproducibilità tecnica, alla povertà dell’in-conscio (s)velato come macchina a senso unico, incapace
di scarti: progetto di ri-petizione,
ri-petizione di progetto.
E allora non desta meraviglia se l’oscura punta d’essere, l’essere dell’essere del crescere del salire, e struggere e segregare senza pietà, senza armonia il punto emblema della freccia disgiunta dallo sforzo è esperito alla confluenza delle raffiche sublimi, se dopo il dopo è dopo aggallante in un flusso di infallibile realtà, nei giorni acerbi che sommano giorni ai giorni quotidiani nella araldica prosodia delle tangenze,
dove metà idea e metà frutto, metà rischio metà fame, metà intero metà tutto, metà morte metà pane, dove è l’etimo immaturo, l’etimo colto, l’etimo negli spazi avariati, nei minimi intervalli, nelle congiunzioni, l’etimo della solitudine posseduta, l’etimo della sete. Così l’oggetto è il suo destino e il farsi, come intervento nell’apertura della gabbia, segno graffiante della lacerazione, diegetica e survoltante, non può che circuitare nella incommensurabile semenza delle vertigini adombrate, nella fuga vertiginosa dalle relazioni, dalle traiettorie, dalle radiazioni, dalle concezioni, luogosenza storia, luogo dove tutti e dove la coscienza e dove il dove, gli illimiti itinerari. Perché, insomma, tutti i sotterfugi di Zeus gravitano nella preistoria isterica del bisogno, riducendo le metafore interdette nella conclusa sacralità del cibo, della merce che si ri-getta nella giaculazione in-differente ai topoi. In ogni caso l’oggetto conosce se stesso e Pandora è sempre pronta a contrabbandare la sua partenogenetica verginità nel cambio-ricambio di una identità sociale, incantatrice potente della speranza, ristagnante al fondo di una fuga fittizia dall’altro, altro dal fogliame e dagli stinchi, altro dall’onda e dalla polvere subsonica, altro dall’altro oltre l’ultimo altro. E così all’infinito, verso la univocità delle iscrizioni differenti nel Libro, nell’utero materno dove le odissee si riallacciano nella requie materna dell’eternità, somigliando così profondamente ai radi ragionamenti che faremo sul punto di morire, in articulo, con l’ombra degli amici, a fior di mente. Ma, inghiottito dalla voracità predace della fanciulla, il canuto amante non può non fare i conti con i segni speculari del disfacimento, con l’impotenza lucida del suo travestimento. Il clou dello spettacolo, il salto senza rete e senza ritorno, è sancito altrove, dalla mano ignota di un travestito da morte che lo richiama, per subito deciderlo, all’unica identità possibile, quella clownesca della morte, nell’assenza di ragione e di pietà, del metro che misura le pertiche tradizionali: o voialtri che sapete che rosa che rosa ma che rosa che state aspettando, se foglia e rifoglia rifoglia biondina, l’amore si sfoglia, l’amore e la vita? Siamo cioè su una pista di registrazioni incrociantesi, lungo le quali il terrores’incunea nello spettacolo seriale del travestimento quotidiano, allulendo ad una chora dove non è più possibile precisare da che parte siamo e il cui orizzonte fisico-storico, pur nella sua costante ossessiva di muraglia cinese, di continuo rinvia a curve non poste, ad accessi inusitati attraverso il trucco e l’effetto, non definibili in base al plus-valore di coscienza, né tanto meno intuitivo, in ogni caso semantico. Ma Villa continua: pur costretto come è a pro-nunziare il suo nome, a porlo dinanzi alla parola-corpo che è, profila una microfisionomia in eccesso (di contro all’immobilità sublime della Maschera), di magoni, di rancori giulivi, di singhiozzi, di sgraffi, di letanie senza testo, irrespirabili nell’ignaro, gelido, decrescente talamo dei nostri aliti a ridosso, scapola a scapola, perché scapa la caca de sgnapa ghe se scepa la ciapa del bus del cu. Così l’intervallo tra storia e metastoria che lo condanna all’infelicità della separazione dal demone amato, da colui che lo possiede ed è a sua volta posseduto, è cancellato cancellando storia e metastoria, variando all’infinita l’infinita modalita dell’in-visibile, nella precocità. di un eden dischiuso à l’instant meme du crime, in cui il faut secouer un nautre amour, nell’esercizio dell’immortale paura dove non è più il tempo di lode o di mimica o di frutti o di corpi, ma oracolo appena mitigato: rifiutandosi alle politiche interpretazioni che tendono a definire per oggi e per il sempre l’ordine del riscatto personale e l’evento conico, estroso. E allora ciò che rimane di quell’intervallo è la Scena nuda, disarmata, ombra e tenda, come ciò che è teso e che però è privo di consistenza specifica, traversata indeterminata dei progetti nominali, che occultano la controparte in gioco, ovvero la sua controfigura, se il caso è la libertà dalla logica ma anche la necessità dell’imprevisto, dove è vincere o perdere, il luogo della scommessa, dove anche l’ultimo brivido della biscia dopo sanguinosa repressione biochimica, anche il culo della formica baciata dalle intemerate labbra del ministro e anche pure i corni dei corni dei corni dei corni dell’ara del bufalo. Così che il fuoco di Empedocle appare come il segno (pre)mitico di una condizione che si sottrae alla convenable-mémoire, sancendo la terrestrità e il suo hasard, che viola les solutions régulières attraverso la deiezione totale nel corpo, nella saliva, nella metempsicosi vulvulare du chromosone, che intensifica la dimensione algebrica del lacero, liberamente misurata nell’orbita delle frenesie. Travestire i travestiti, tagliare la distanza facendosi distanza, ri-get-tare ogni significazione come modalità all’oggetto, se ancora ha senso la divisione, se in definitiva ciò che lega la fanciulla e l’amante nella copula è anche ciò che li divide. Una sorta di allucinazione, congiura che effrange i limiti bio-logici del sapere nello spazio contro il tempo del Minotauro: un sotterraneo, una gabbia scardinata, che trasforma il desiderante in figura protestata, la cui parola è variazione, defunzione, follia purissima follia, chanchantant voix vive fanatisme e les lions fébricitants à Mycène nella manipolazione linguistica dei tempi, nella legitimate confusion da Babilonia a Parigi, attraverso la biblioteca di Babele, delle vecchie anatomie civilizzate com li jests del Destin, ternant li secrements, el son outradge e a desesprans, perché lo schema non collima con l’essenza e il dominio con le leggi dell’essenza: dal nulla al nulla. E allora è il corpo trasmutato ad essere, e l’essere corpificato: il demone parla, Villa sciamano, Villa mago, Villa demone che attesta la vertigine in bilico sul peccato. Mai così terribile la promessa, mai così grave l’insurrezione: ipse of ferens, ipse et oblatio. Certo: La specie è cannibalistica: cum pascit pascitur, et cum pascitur pascit. Ed è in questa autofagia da sfinge che Villa va a conficcarsi, nel corpo naturale del possesso orale dove l’unità è quella escatologica della Madre-Terra, telluricamente protesa alla fetazione infinita della materia, in cui si possiede fino a ritrovarsi, a ritrovarsi con i suoi infiniti: avendo ormai esaurito le determinazioni del tempo, avendo ormai proceduto all’assassinio di Chronos, divoratore di ribelli.

È tempo di invertire la prospettiva, di ri-scrivere come in una doppia narrazione, in cui la fascinazione della regia dilapida l’immagine nell’occhio che ti fissa, respira, pulsa, trasale, e si delude: se deludersi è truccarsi nel desiderio, sorreggersi nella passione emergente, crescente nel soccombere reciproco dei simulacri esterni. È tempo che, tramite il flusso della morte nella vita, come il venire alla morte nell’orgasmo con l’altro, che è il nostro come nostra è la sua ipnosi, taccia la tragedia pre-verbale dell’ansia, il re spodestato che condanna il sicario al trono antico. È in questo momento che Villa si riconosce e scampa, affermando il suo destino, lo spessore dedaleo che schiaccia nel potere risolvente del labirinto la distrazione pietrificata del feticcio. Ecco: oggetti inanimati e il bruciarsi della vittima, abbandonato il senso al sottovivere, freddato, scorporato nella figura allegorica dell’eterno irrevocabile, come salma di una specie erogata nel tempo perduto. Villa è al di là dei suoi Lemuri, della sua civiltà non trovata, sperduta sotto la sabbia di deserti cuneiformi, criptici, indecifrati, visitati nell’orrore freddo della lucidità assuefatta al suo delirio, miniato nel vizio entusiasmante dell’estasi, nella magia della compraesentia oppositorum. E l’essere, suggellato nella crisalide coatta del divieto, in Limine all’incredibile incredulità del questo è il mio corpo mangiatene e bevetene questo è il mio cervello anche se senza più sangue senza più amore, non può che disimpararsi, digerirsi, defecarsi, sciogliersi nel respiro-non-più-pensiero che mima il credito, ogni credito futuro, il patto sotteso del fuori margine. Il vuoto allora è incommensurabile, promuove un eloquio d’assenza, uno schermo della commemorazione che spettacolizza nella liturgia del commentario la garanzia del milieu, il cerchio come supporto (non) formale della regola, la cella ermetica dell’autocitazione, del parlarsi in bocca. Villa si nasce, fin dall’inizio, come resistenza, strategia di un disvalore che dis-trae lo pseudodestino della macchina sociale, denuda l’astuzia della ragione lacerandola al volto, al graffio dello stregone che fa esplodere il corpo, sottaendolo al luogo immediato dell’umano troppo umano, da cui quello è segregato, scempiato, ridotto a puro piacere-consumo, alla caricatura dell’interiorità. Esca, larva, frantumo di cortecce straniate: i conti non tornano mai e solo il tabernacolo del prestigio può quadrare il cerchio, fare del sogno una tattica, del corpo un gioco di retroazioni: ciò che si suol dire, una necropoli. Qui è l’evidenza, l’allegoria evidentemente inallegorica di una prassi materialista che procede al salto lungo dalla civiltà, il raccapriccio per il cadavere squisito che suggerisce, a chi rimane, l’assoluto del perso, il suo tempo.Ciò non fa che  esaltare la natura dello sforzo, il suo decollare verso una scentralità della passione, che, nel fuori margine, fagocita l’intuizione della demenza, riappropriandosene e sottraendola al lavoro del quotidiano. Eppure prova ed inganno, comunemente intesi, continuano a ri-produrre la figura-feticcio della permanenza: Villa non permane, il suo paesaggio inosferico decentripeta, nell’allucinazione dei reperti ottici, l’essere cercato e cancellato, nominato e violentato, ridotto a giacenza, a puro sgomento del mio che vermicolizza la conclusione all’equivalenza, alla cifra simbolica, a una (non) mancanza d’irripetibilità, che di ciò solo rende conto: mancanza di desiderio, un recedere nell’indulgenza, plenaria e bigotta. Non meraviglia dunque se Villa si rende irriconoscibile, scampa nella falsificazione, anche testamentaria, della sua esperienza: in quanto sua, in quanto pseudo privilegio di un tracciato iconografico che si autoconvalida, confermandosi. Anche se non accade niente, anche se Villa non cessa di irraggiungersi nel sempre in là dall’amante perverso che lo rinnega, perché da sempre implicitamente negato, beffato, giocato nella sua stupidità, nel suo romanticume da genio. In ogni caso non si sfugge all’attenzione, e la frigidezza è l’esito di ogni ansia: la vittima muore e l’aspirante stregone è impotente a berne il liquame cadaverico, a divorarne le frattaglie puzzolenti. C’è più passione in un morto in decomposizione che nella nostra stomachevole ricerca di castrati: perché non si sfugge alla banalità della propria sortita e il desiderio d’essere si paga con l’essere, con la decantazione chimica della propria minorità; perché in definitiva anche la faccia del dado è un linguaggio e rinvia ad un tavolo, in un processo senza meta che si chiude su se stesso, nella trasgressione della trasgressione, nella invalicabilità dell’orizzonte.
Così l’occhio non può procedere che all’elencazione visiva dei dati, alla riaffermazione della propria presenza: fino ad esserne oscurato o a diventare idolo. In ogni caso una inessenzialità, un accidente. E allora non rimane ad esso se non rifiutarsi aila vista, riassorbire la funzione nell’essere sostanza della sua polpa, frustrare ogni frustrazione, fino a cancellare la vanitas vanitatum vanitas, a porsi come latitanza. Rupit enim plus rumpit, quam rumpo: dove il perfetto segnala l’avvenuta effrazione,
im-personale, chiusa nel tempo fino a biffarlo; sancisce la sovranità assoluta di un non-vedere, non-sapere al di là dei devastati campi delle immagini, della Identità brulicante di identità catalogate, poste sotto censura, date alle fiamme. La sofferenza che ne nasce sconfina al di là del semplice patire: gorgo terribile che rimacera le frattaglie dell’esistente, fino a sprofondare nel lezzo orinale di ciò che circonda, nello splendore da circo intravvisto tra uno sbadiglio e l’altro, nel gemere di un coito interrotto. In ogni caso il limite rimane, si sposta, decentra le sue posizioni, scompare per ripresentarsi nel divenire reciproco, del lascito del corpo nel corpo in cui l’occhio latitante coincide con la morte. Certo: la materia è grande, tremenda, ha una sacralità che niente può ridurre o compensare. Ci condanna al mal di denti, al piccolo fetido tumore che alligna nei polmoni, allo scoppio della merda dalle viscere, al vomito sugli odori dei corpi. Limiti storici, limiti bio-logici. Eppure anche l’ideologia, la separazione dal corpo comporta passione; anche l’Identità, anche i fantasmi chiedono passione, un coinvolgimento, una eucaristica illimitata fiducia: nel trovarsi che è perdersi. Così tout se tient: la maniacale passione dell’ano e la saprofita ascesi mistica. Nessuno ci restituirà un odore, nessuno un perspicace rutto. Almeno, un silenzio. Ma la resistenza continua, il rischio è contro la regola e i sigilli che chiudono i cavalieri nel ventre del cavallo sono un introibo al dio nascosto, l’istante lungo del compiacimento: “Io sono nascosto”. Così la certezza si fa propedeutica, si rifiuta alla nostalgia, alla tattica, alla strategia, alla scientificità tautologica del beau geste, si espande verso il dubbio e il metodo, chiamando alla notte di Valpurga e, insieme, del monte calvo, i segmenti animati della scena, per esporli al sacrificio-iniziazione, per disesorcizzare le spaccature di classe risolte nella complicità del rapporto paraerotico. Ich finde nirgend Ruh / muss selber mit mir zancken / Ich sitz / ich lieg / ich steh / ist alles in Gedancken: i letti del mondo sono pieni di sperma solitario. Ma lo spettacolo non corre mai alla sua fine e ciò che si cerca — hic Rhodus, hic salta — si disperde nello smarrimento anche dell’assurdo. Tutto, tutto si ritrova: e l’umore sparso rivendica la gola, la lingua, la mano l’eccitazione che l’ha prodotto, in un ri-fluire cosmico del seme
nell’organo, dell’amore nella memoria. Rimane, ancora una volta, Villa: nell’ebrezza della sua giovinezza sottratta al segreto bio-logico, caduta nell’oblio, demonica, ieratica, terrorizzante debolezza; nell’ebrezza di un desiderio sottratto al peccato, allo splendore mortuale dell’artificio come espiazione dell’eccesso di vissuto che coagula le verità smentite, la spaccatura vertiginosa della preistoria. Ed è in questa preistoria di inequivalenze, che Villa incide la sua malestrevole babelica ultima e non finale mattìa: l’innocente non cesserà di consumare il suo delitto, l’intuizione est-etica del massacro. Allo stesso modo: la veggenza è senza termine e lo sbadiglio non può che ritrarre la sua trivialità nel tratto improvviso, nella fusione col dubbio che specifica la sua casistica.

Si sta dunque parlando anche di Villa: per quanto il pretesto persista nella sua citazione, nell’eccitazione di uno sguardo sociale che libera il venire a morte della solitudine nella solitudine, nel terrore notturno del milieu come esegesi della potenza, della breve cara voce dei poeti d’Italia, Alfonso Gatto, o quella di Montale, di Sandrino pederasta, breve fischio in statu erecto. Così è tutto un seguirsi di scadenze, di caparbie, quanto absolutorie, indicazioni, di sortilegi defilati nella solennità gigante del comizio, nel rutto pantagruelico che rinfaccia alla sapienza la sua generosa inutilità: perché, in definitiva, l’amor senza mutande non ho farem mai più, se il dies irae, l’ultimo frantumo di umano intelletto nel ventre fottuto dei celesti è il dissolversi dell’antico testamento nel nuovo, del clamore nell’eco circolare dell’umano, protestato, perfetto, dato al fuoco. In ogni caso una parodia, una critica della ragion pura, pratica e del giudizio, in cui l’errore sfugge alla resistenza della storia, all’olledienza metafisica, tracciando il tragitto tra il prima e il dopo, diagnosi fisio-logica dello speri-mentale come esordio, dispersione dell’immagine-testo come luogo/logo surrettizio della legge di puritd. Misit in abyssum et signavit: il mondo in sé è solo e muto, una elargizione forbita di cazzabuboli, una diaspora bogorreica di folgorazioni e miracoli sigillati ai venti di orcinali esegsi, una trama perfetta di eschaton consolidali. Offerti alla sua contemplazione, si parla, è vero: e parlando l’impazienza cade nella rete, la chimera è un paradigma irrimediabilmente perduto. Ci si confessa, anche: conciliandosi con la propria seduzione. In ogni caso crearsi un dio è sempre un problema: un frammento, come tutto. La parola s-vela il graffio e lo situa nella messa a morte della mancanza. Villa, hapax legòmenon, da parte sua continua a pensare alla nonna Anelli, da Golasecca, alla nonna Redaelli, di Busto Arsizio, che fino alla morte firmarono con la croce, con il segno, se prima di ogni genere c’è un barlume, c’è un crepaccio, c’è un attimo di sospensione nella vicenda dell’omogeneità e della distrazione. Altra volta applaude, zittamente, demiurgente sulla via Appia, sull’Appia, apparso come da Atlantide con tavole corrose e sconosciute. Più spesso è tentato di sparire come Edipo a Colono o una sibilla che disperde le foglie secche di follia al vento. Al di là di ogni imbarazzo, egli si smangia, perché l’idea è troppo evidente e non tollera una tranquilla sospettabilità. E sta con il triangolo: in pectore, in ore, in aenigmate, in speculo, in symbolo, in vacuo, ipse suum corpus edens. Uno Speculum Hygienicum, da cui l’universo può tendere i suoi limiti, può ampliarsi, e sconfinare addirittura. E allora è possibile anche in-definire il luogo (non) deputato del rito: pro funda immensa infinita aula memoriae, dove lo scambio agglutinante dei reperti esibisce nella vertigine dell’eros-ione la fuga del quotidiano. Ma questo ricomincia, e anche l’eros-ione come diseredità del lavoro ovvero dell’alienazione: fino
a porsi come compimento formale, ricorso alla pura magia della materia, che ridisegna nel bianco preistorico dell’im-perfetto la sua sostanza in fieri, i contenuti delle sue lacerazioni future, verso la saldatura tra mondo organico e mondo inorganico. “Naturalis autem causa esse videtur, quod ad scientias praesertim difficiles consequendas, necesse est animum ab esternis ad interna, tam quam a circunferentia quadam ad centrum sese recipere atque, dum speculatur, in ipso... hominis centro stabilissime permanere. Ad centrum verum a circumferentia se cofligere figique in centro, maxime terrae ipsius est pro prium, cui quidem atra bilis persimilis est. Igitur atra bilis animum, ut se et colligat in unum et sistat in uno contempleturque, assidue provocat. Atque ipsa mundi centro similis ad centrum rerum sin gularum cogit investigandum, evehitque ad altissima quaeque comprehendenda”. Così l’istanza saturnica permea dal di dentro la crisi, s-comunicando l’(in)umano e la sua poss(ess)ibilità, ponendosi a fondamento di est-etico e sociale, contemporaneamente sottratti al fonemano della ragione della storia e della storia della ragione. Villa indefinisce cioè una mathesis universalis, una legge spietata del tormento che scronologizza la riflessione duplicata dell’appartenenza, la ratio economica dell’oggetto, trasmutato ad attributo, a testicolare pregnanza: mathesis che irride ai giochi circolari dello storicismo, intendendo all’oltre delle forme-limite dell’umano, polverizzando La sua stessa avventura, con l’innestarvi l’occhio chiuso della follia, il myster master of hyster mistermmouse dell’uomo mondo,
homme-dans-le-non-monde-le-non-mondedans-le-le-non-homme
homme-dans-le-mond-le-mond-dans-l’homme-du-mondedu-non-monde
le-mond-de-l’homme-dans-l’homme-du-mond-du-monde-pour-l’homme
                                                                                                                                sans-le-monde.

La re-inserzione suona dunque come inflessione attestante una pratica calcolata ed eccedente, che metabolizza, variando, il mentale nell’obliquità inaderente dello espurgo, che si segnala, moltiplicandosi, nella scena agglutinante di membra disjecta, sottratti all’indice di morte, alla finzione costituita dal ritorno del metaforico: eccesso di scrittura (contro la ripetizione idealista del nome-con-valore-di-divieto, della retorica dell’omissione), che cancella la gestazione dei segni di verità, malgrado la volontà dei segni, la diga di contenimento di forze disperse costituita dal pensiero che pensa se stesso, dalla voce che vocalizza il suo suono-idea. Uguagliarlo tuttavia sarebbe disperderlo, e scrivere dire la sua dispersione, cioè annullarlo. Le regressioni sono infinite, infinite sono le stratificazioni che occorre attraversare: Ulisse non è mai tornato a casa e il canto delle sirene continua a inchiodarlo all’albero della nave. Il supplizio, certo, è immenso e i viandanti non cessano di sputare sul suo corpo cerificato. Là, l’errore; il fascino dell’incerto, la mascella aperta al desiderio: qua, il gesto il predatorio di chi si appropria del lavoro altrui. Filologi e critici contro Ulisse-Villa. Allo stesso modo l’atto unico che costringe gli attori ad accoppiarsi ogni sera sulla scena è per l’appunto un atto unico, un labirinto di identità, un definito storico che autocircuita l’artefice e il prodotto. Il discorso come discordia non sa che farsene di se stesso: alla Eris greca si sostituisce la vendetta, tipicamente provinciale, della gelosia, e Ulisse, travolto dal suo destino, egli stesso destino, sarà espropriato, al ritorno ad Itaca, della casa, della moglie, divenute identità di altre identità. Sempre nel possesso immarcescibile della Storia, nella presenza onnivora, teatrale della licenza.

Siamo così giunti sul luogo ultimo di un montaggio scentrato, indiscreto che incondiziona la risposta definitiva, il de nobis ipsis silemus della mitologia condominiale. Una capacità reale, un folle divenire eracliteo che scolma la discrepanza nella volontà unica di rompere l’involucro, il paradigma metaforologico della sublimità, del luogo comune, del potere. Per essere sempre più in là,  fuori, pur continuando a rimanere dentro, a usare i sensi abituali, a esercitare il diritto di piazza. Ed è proprio questo permanere, pur non essendoci, pur travestendosi ad ogni istante, per poter guardare senza che la Scena introiti il suo sguardo, che rinvia Villa, madre del mondo come atmosfera, madre-drago, madre-mandibola che ci danno conto della sua omerica chiaroveggenza e della sua leggenda.

In luogo di conclusione

Villa, c’è Villa, amante perduto, dio delle strade, dio delle porte, Villa, madre del mondo come atmosfera, madre-drago, madre-mandibola che maciulla i rituali ornati, caverna che procede, oscura, inghiotte sunyata senza cose o ombre, senza inizio di giorni né fine di vita, corp lombard, bel corpo lombard, non nato nel grembo, assorto nel vagare, addormentato, sognante, disturbo nell’universo inerte, Vila, Vila fio, bagài del Ginòtt, corpo manale, pozzo cieco, chora d’eroi, labirinto di morti, ladro di fantasmi, barabbattola di gibigiane, filo interminato di manaidi, suono sovrapposto sfasato scentrato catalogato arroventato bruciato pandemico ierale micronico opercolare, Villa, sfera dei possibili mondi che contiene, circonda, racchiude come l’occhio che incorpora il pene, spirito buono, pesce, uova, sassi, serpente, luce di panorama, chiuso in battaglia, morso, tagliato, bevuto, chiavato, oltre il gusto la benda il cartone, nostro fallico progenitrix mater dulcissima mater che salti nelle parole e salti per saltare, come l’occhio buono del ragno guardaci, guarda l’ombrello, o tu spermaceutico, conta i nostri denti cariati, raccogli i nostri testicoli vivipari, perché noi siamo con te e tu con noi dall’orgia dei tempi e audessous audessus oh jesù deca delà deda dada danse avec nous danse avec nous, rendici la pulce che s’annida nella placenta rubataci, rendici il nomen noumen numen men, componi la tua ira sugli effemeridi, sugli ingiuriosi, sugli dei, pena nera che cresci, tautogeno progenitrix, mater saeva, eva.


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