VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
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Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art

Luther Blissett

Di Bebeep. Di Rowski. E altre storie


Di Bebeep
Di Rowski

   
Di Bebeep

1. Suite a Ferentino
2. Bebeep, Cartesio e la vinaccia
3. Bebeep, Briana e l'amore
4. Bebeep ad Amsterdam
5. Je t'adore

1. Suite a Ferentino

Bebeep non ha letto Gozzano,
e non sa chi è Totò Merumeni.
Lui pensa che solo ai ricchi toccano le gioie del sole,
e che è vissuto male, colui che nascendo e morendo rimane oscuro.

Ignora anche che Ponzio Pilato
e la moglie Claudia Valeria Procula passarono da queste parti.
Come l'imperatrice Flavia Domitilla, Gregorio da Montelungo,
Martino Filetico e Novidio Fracco.

Bebeep ha deciso che oggi è archeologo.
La donna che lo accompagna ne sa meno di lui
e lui può giocarsi alla grande quel poco di cultura
che ha appreso in una scuola di preti dove si paga
per rimanere ignoranti.

Qui c’era il tempio di Giove, qui si pregava Mercurio
perché tardi agitasse il caduceo.

Più tardi andranno a colazione.
Dopo li attende una suite, all’Hotel Moretto,
fatta apposta per chi non ha mai letto
Gozzano né sa chi è Totò Merumeni.

O dolci baci, o languide carezze.
O pomeriggio caro a chi ha a noia la polvere,
lo strepito delle ruote e l’osteria.

Qui Bebeep, qui ora scopa.
Che anche ai ricchi toccano le gioie della vita
nella suite al II piano dell’Hotel Moretto a Ferentino.

2. Bebeep, Cartesio e la vinaccia

Bebeep non ha letto molti libri, due o tre
al massimo. Figuriamoci Cartesio.
Eppure sa che solo le idee chiare e distinte
possono fornire un senso all’esistenza.
È un patito dell’evidenza
e non ha dubbi sulla natura
dei diavoletti, che per lui sono solo
un espediente dei filosofi per scrivere
discorsi sul metodo
e sulla vinaccia.

Per esempio, non ha dubbi su cosa debba fare una moglie
che sia stufa di idee chiare e distinte
e abbia voglia di vedere se il mondo sia meno regolare
della pista da corsa su cui, lunedì mercoledì e venerdì,
egli esercita la sua intelligenza. 
E non a caso ha comprato una casa dalla quale con le figlie
quando si sveglia potrà vedere il mare il mare pigro dell’estate
e quello più tormentato dell’inverno.
Tanto ci sarà sempre una moglie, e una madre,
che ogni mattina, in un’altra parte della città,
porterà il caffè al padre, gli dirà buongiorno,
e gli racconterà che il figlio
una volta la settimana chiede di lui.
Poi lei andrà al lavoro, e al ritorno
passerà per la casa da dove si vede il mare
per cucinare, mettere ordine, e sorvegliare gli studi
delle figlie che non ancora hanno studiato Cartesio
e non è detto che quando l’avranno fatto
saranno in grado di capire che la morale provvisoria
è un segno dell’impotenza dei tempi, e di ogni morale.
A sera tornerà nella casa, in un’altra parte della città,
a consolare un vecchio che ha perduto il figlio
senza mai averlo.

Questo pensa Bebeep, negli intervalli degli allenamenti
e in quegli istanti in cui la vita si stende davanti a lui
come il manuale di medicina che non ha più segreti per lui
e dal quale ha imparato che come i bambini hanno bisogno
delle malattie esantematiche da cui guarire per divenire forti
e grandi così accade agli adulti che hanno da imparare
dalle ferite dell’anima senza piangerci su
più di quanto conviene.

Bebeep né è sicuro: glielo ha detto la madre
fin da quando era bambino. Sei il migliore, gli diceva.
Poi se n’è andata, scordandosi di ricordargli che anche il rospo
è bello per la madre, né lui mai ha letto
il poeta, che ha avuto l’ardire di definire santi i rospi,
gli scarafaggi e gli uomini che a quelli rassomigliano.

Se n’è andata, lasciandolo solo in un mondo
che rende onore a santi e criminali, poeti e podologhi,
perché nel gran bazar del mondo c’è posto per tutti,
anche per chi non ha letto né mai leggerà cartesio
e finge di non sapere che prima o poi tutti finiremo
merda secca, cibo per i vermi e per i preti.

Così Bebeep non ha altro da fare il sabato sera
che andare a cercare, nelle cene dove si parla di tutto
senza parlare di niente, l’avvocato Curillo con la moglie dal collo lungo,
che gli ricordano che dio esiste, sì per dio che esiste,
e che aveva ragione calvino a dire che il denaro
è il segno della sua simpatia per noi.

Anche se c’è poi una moglie che è  stufa di idee chiare e distinte
e ha voglia di vedere se è poi vero che il diavoletto è solo
un espediente dei filosofi per scrivere
discorsi sul metodo
e sulla vinaccia.

3. Bebeep, Briana e l'amore

Bebeep ce l’ha fatta!
Finalmente è innamorato cotto ma così cotto
che crede a tutto, proprio a tutto. E’ convinto che se lei gli invia
uno dopo l’altro sms in cui scrive ti amo amore mio
mentre sta chiusa nel bagno dell’albergo perché il marito che non sa non sappia
è perché le affinità elettive vanno rispettate, e protette
dalle dicerie volgari del mondo.
E lui che non ha letto Camus sa istintivamente che la gelosia
è un sentimento in cui solo chi non ha nobiltà d’animo
può scambiare l’amore per un gioco di mucose.
Così che importa se lei scopa con il marito due secondi dopo
che gli ha scritto sul cellulare di pensarlo con tenerezza
e che gli manca e non vede l’ora che sia domani.
Che importa se con lui non scopa, solo una carezza sulla nuca
ma lo sguardo languido che doveva avere Odette quando Swann
le toccò il seno scompigliando le cattleyes.
Così, non sa più cosa farsene delle sue vecchie idee,
quando pensava che le donne si dividono in donne da letto e donne da passeggio,
anche perchè con lei ancora non va a letto e ancora non passeggia,
per mondana prudenza, per pudore, o perché nessuno
abbia ad invidiarli, o faccia il malocchio.

Lui così è felice!
E ha l’approvazione dell’amico avvocato Curillo,
quello che ha la moglie dal collo lungo, che studia come disporre i fiori nelle cene
e non si capisce perche usi i tacchi come se fossero trampoli.
Ha l’approvazione anche della madre dal paradiso,
che gli sorride come il giorno in cui fece la prima comunione
o il giorno in cui ebbe otto in greco senza capire nulla dei greci
e gli diede ventimila lire, dicendogli: come sei bravo, figlio mio.
Ha l’approvazione del gesuita che anche se zoppo
gli insegnò ad andare diritto per la sua strada
convincendolo che non è vero che chi va con lo zoppo impara a zoppicare
e gli disse: va’, corri, e segna nell’agenda quando tempo impieghi.
Ed è felice, perdìo sì che è felice:
lei lo ama, gli manda sms, rifiuta anche il cellulare che lui le ha regalato
perché in amore la tecnologia non ha senso
e ora lui quel cellulare può donarlo alla figlia e fare il padre tenero
senza crocifiggersi con quei perché che fanno male all’amore
ed è bello pensarsi ogni sera al tramontare del sole,
è bello avere una donna che somiglia a Briana Banks
e ha un senso così alto aristocratico della vita 
da pensare che la livrea imposta all’extracomunitario che serve a tavola
è una questione di stile, e non di classe,
e non sgranocchia mai fuori pasto, specie quando è sotto stress.
É bello credere che è sufficiente una donna
per cambiare se stessi, e il mondo.

4. Bebeep ad Amsterdam

Bebeep non sa perché Rembrandt è un nome che ha una certa importanza
nella storia dell'arte. E perché preferisce volti e corpi che, certo, non rispondono
ai criteri estetici di chi ama i volti e i corpi resi belli dalla fatica
ardua della corsa. Poco gli importa di sapere se la luce delle sue tele
ricorda quella delle terre olandesi, da cui un giorno partirono navi e marinai
che scoprirono che il pianeta non lo puoi percorrere a piedi
ed ha scali e porti dove le donne vendono sorrisi e altro
perché la fame è un imperativo categorico cui non puoi trasgredire.
E così, ora, ad Amsterdam, in una città che ricorda la Serenissima
solo perché ha canali e barche che rendono umide le case
e grige le mattine, egli se ne va
come uno cui la vita non riserva sorprese.
Nemmeno un orecchio mozzo, destro o sinistro che importa,
potrebbe fargli capire che a volte la disperazione gioca brutti scherzi
e non la puoi mettere da parte facendo jogging o fingendo
di essere artista. Vedrà il Riik, la casa di Annie,
lascerà che la figlia se la sbrighi da sola
in una città che non conosce,
mentre dalle 12 alle 16 attraverserà con passo cadenzato e ritmo prestabilito
le strade che, forse, un giorno videro Baruch meditare sull'enigma
di un mare che è sempre lo stesso ed è sempre diverso.
Ethica more athletico demonstrata: ed è un segno dei tempi
se gli antichi demoni che furono un giorno tutto il nostro fare
altro abbiano ora da fare e poco si curino di essere signori
e servi della nostra felice infelicità. Così domani Bebeep ripartirà.
Per le terre del mediterraneo dove gli toccò di nascere.
Con un aereo da cui, sorvolando le Alpi, potrà guardare l'umile Italia
senza pensare che un giorno Saturno vi fondò il regno e fu anche lui un re.
Tornerà a casa, per raccontare agli amici
che ha impiegato 3 ore e 13 minuti per attraversare le strade di Amsterdam,
che avrebbe potuto fare di meglio, ma sarà per la prossima volta,
quando non ci sarà più il volto di Briana a turbare l'accordo
tra il ritmo della mente e quello dei suoi piedi.

5. Je t'adore

Bebeep non ha mai assistito a un melodramma.
Verdi, Wagner o Puccini: questo o quello per lui pari sono.
Né tanto meno sa che Nietzsche contrapponeva all’ascesi blasfema
del genio di Bayreuth l’energia sacra dei pescatori di perla
o di una gitana che amava ora questo, ora quello.
Più semplicemente, non ha mai ascoltato le parole di don José a Carmen
nel momento dell’addio, pochi istanti prima che il pugnale
sancisse con la morte l’eterna vicenda dell’amore
che non si spiega e nulla spiega.
Perciò, è commovente se, nel parlare al cellulare con Briana,
egli ritrovi parole antiche, che richiamano il cantico dei cantici
e fanno pensare a trasalimenti ed estasi, che poco si addicono
a chi mai si è interrogato sul sacro, e sulla sua violenza.
Egli dice: je t’adore. Come don José poco fuori di un’arena
dove Escamillo ignora che mentre mata il toro un ex militare
gli porta via per sempre la donna. Je t’adore: ripete.
Con convinzione, e dedizione: sul balcone di una casa
da dove si può vedere la pista dello stadio
dove nei giorni dispari, lunedì mercoledì e venerdì,
esercita il corpo, se non l’intelligenza.
Je t’adore: ripete. E Briana sta lì ad ascoltarlo, e s’inebria
di quell’amore che nulla chiede e tutto dà.
Si sente importante, e donna, e femmina
cui manca solo un attis di passaggio
per passare all’eternità. E imbarazzata, anche, un istante dopo,
perché esseri adorati non è affare da poco,
e viene sempre il sospetto: ma che vuole questo da me?
Vuole che io lasci il marito? E il figlio? Vuole
che sia pronto a fare rivoluzioni
che il nostro tempo ha dimostrato essere cose da poeti
o da internati nel palazzo di sant’Anna?
E così non le viene altro da chiedere se per caso
non può procurarle quella canzone di Simon&Garfounkel
che parla di soul e che in un vecchio film,
degli anni in cui qualcuno era così folle
da pensare di poter cambiare il mondo,
accompagnava la disperazione di un laureato
con il volto di Dustin Hoffmann, che sbatteva
i pugni contro una vetrata per impedire
alla donna che amava di fare quella cosa, cioè sposarsi,
per cui, statisticamente, dopo nove mesi,
la specie si accresce di un nuovo esemplare.
Ma Briana è già sposata. E ambedue hanno già dato,
e concorso all’incremento della specie.
Ambedue sono infelici, e felici: a modo loro,
nel modo in cui lo sono tutti quelli che scambiano
il presente con l’eternità. E stasera, questa sera,
che fa un caldo da morire, anche se è appena maggio
e non ci sono né via dorate né orti che possano placare
la sofferenza d’esistere, non resta altro,
a bebeep e briana, che dirsi:
buona notte, amore mio, a domani.
 




Altre storie

1. Gli atleti delle colline di Napoli
2. La poeta
3. L'amico artista
4. L'amico poeta
 
 
 
 

1 . Gli atleti delle colline di Napoli

Nella Grecia degli dei e degli eroi, Pindaro sognò
che un atleta potesse avere una dignità cui la poesia s’inchina,
perché nessun verso può eguagliare lo splendore
di un corpo che s’arroga il diritto di un’eterna giovinezza
e sfida con la vecchiaia la morte che incombe sulle cose.
Scrisse così odi che la memoria fatica a ricordare
e l’intelligenza incapace di comprendere classifica e recita
come sublimi. Anche Giacomo per un vincitore
nel gioco del pallone si provò a scrivere qualcosa
che varrebbe la pena andarsi a rileggere,
mettendo da parte passeri solitari e pastori erranti.
Perché siamo ancora esseri antichi e abituati a ripetere le cose,
anche se Filippide non ha più da annunziare alla Grecia tutta
che il nemico fu vinto e salvo l’orto dove i bambini giocano
ignorando che la storia è crudele e prima o poi li costringerà
a crescere, e a soffrire. A essere loro il nemico e ad essere
sconfitti o a vincere.
Ma oggi Pindaro non c’è, non ci sono né dei né eroi
né un gobbo pessimista e maligno a cantare
le illusioni che se ne vanno come sono venute.
Così, oggi, sull’arida schiena del formidabil monte
sterminator Vesevo, si corre..
Per disperazione.
Perché non c’è null’altro da fare.
Perché la moglie ti ha tradito o la donna che ami
non si decide a lasciare il marito che non ama e non l’ama..
Perché la cultura esige più fatica che quaranta chilometri con il cuore in gola.
Perché è meglio correre che fumare, o anche pensare.
Perché pensare, e fumare, sono attività che poco si addicono ad un corpo sano
e la morte è per gli inetti.
Perché è così bello correre se il cardiofrequenzimetro ti conferma
che hai un cuore a prova di emozioni e di erezioni.
E poco importa se la mattina una guida turistica
ti ha fatto vedere la lucrezia del parmigianino
e tu non hai capito nulla di quei capelli.
Poco importa se un’altra ti ha spiegato che Napoli
è una città dove una faccia gialla vale una nera o una bianca
e tutte sono la faccia di dio e del maiale.
E un’altra ancora ti ha fatto vedere le macchine anatomiche,
il cristo velato e ti ha parlato di raimondo di sangro
che era troppo razionale per non accorgersi
che la materia ha una sensibilità che lo spirito ignora..
Tanto, domani tutti al via, e via a correre
per le strade dove non c’è nessun Pindaro
che si fa carico della fatica inutile d’esistere,
nè ci sarà un’olimpiaca o una nemea
a ricordare fra mille anni che domani  fu il giorno
in cui Filippide annunziò alla Grecia tutta
che a Maratona c’erano stati solo vinti.
E poi morì, di schianto, senza dire altro.
Senza sapere che anche lui era stato vinto. 

2.  La poeta

La poeta pensa che la storia è ingiusta, e poco generosa, con le donne.
Né mai ha avuto il dubbio che alla natura poco importa
del sesso degli uomini e degli angeli
e dispensa con cieca stupidità intelligenza e bellezza.
Ha letto da qualche parte che virtù non luce in disadorno ammanto
e che sempre caro fu alla fanciulla il predatore che le rubò con la verginità
la scusa dell'innocenza. Ha letto la Bachmann, ha letto anche
Ildegarda von Bingen e si è convinta che per vivere è necessario
scrivere. Per sopravvivere alla bellezza che sfiorisce, e alla crudeltà della natura
che ama la giovinezza ed è indifferente alle bizze dello spirito.

La poeta è triste. E incazzata con il mondo, e la storia,
che non danno requie e sono ruspe devastanti. Incazzata con gli uomini
che amarono il suo corpo e non sono disposti ad amarne lo spirito
ora che gli occhi non sanno parlare agli occhi e le mani alle mani.
Incazzata perché né il linguaggio né i linguisti sono disposti
ad accettare che il poeta abbia un articolo determinativo
diverso da quello cui anche il barbiere è abituato.
Così, si ostina a ignorare che la natura non deficit in necessariis.
Scrive, e per il suo martirio le sembra di ricordare che fu l'amante
di un paziente inglese e prese il té nel deserto,
mentre carovane di poeti da un'oasi e un'altra
raccontarono la storia di una donna che per essere poeta
smise di essere donna senza mai diventare poeta.

La poeta piange. E con lei la Musa che non sa cosa farsene
di chi piange, ed è triste, e pensa che la storia è ingiusta solo con le donne.
E ora che febbraio si porta via i vecchi che hanno vissuto abbastanza
e la primavera è ancora solo un presentimento cui non corrisponde
lo stato delle cose, non le resta che una mailing list con cui in rete
convincere chi non ha bisogno di esserne convinto
che i poeti, e le poete, sono saprofiti sulla pelle della specie.
 

3.  L'amico artista
 

Sono un poco artista, ha detto l’amico. Io non ho capito subito
e, visto che parlava di sesso, credevo che alludesse a virtù che il pudore
vuole nascoste, anche se la creatività è cosa nobile e degna di rispetto,
anche a letto. E ho creduto che fosse per uno di quelli eccessi di fantasia
con cui gli artisti si rendono intolleranti al mondo
se la moglie ha dovuto fare ricorso alla pillola del giorno dopo.
Mi chiedevo, solo, un po’ stupito, come è possibile che uno,
dopo due minuti che l’hai conosciuto, ti metta a parte
di vicende che tutto sommato tocca a ciascuno di vivere
senza che se ne debba necessariamente informare il primo che incontri.
Anche di altro ha parlato, delle vacanze ai monti e al mare,
della madre infartuata, del fratello un po’ bislacco che aveva smesso
di fare il medico per vendere lo scioglipancia di Vanna Marchi.
Poi, quando se ne è andato, la donna che era con me
e lo conosceva bene, mi ha spiegato che l’amico
pratica il coitus interruptus senza mai tenere conto
dell’ammonizione biblica ad onan a non disperdere il seme
ed è sempre pronto a vantarsi della sua abilità
a venir fuori al momento opportuno da situazioni
in cui la minima esitazione può determinare, in modo irreversibile,
la qualità della tua vita e il numero degli esemplari della specie.
Io l’ho guardato da lontano, quel suo amico. Magro,
i capelli un po’ arruffati, con la pelle bianca
di chi teme il sole inquinato della nostra epoca. E ho guardato
anche la moglie con efelidi, seno piatti e i capelli rossi
che nei films hanno di solito le donne inglesi.
E mi è venuto di pensare all’ultimo capitolo del romanzo
di don Alessandro e di quello che dicono le comari
di lucia. E di immaginare quell’istante, sì, proprio quello
in cui tutti gli uomini, anche gli artisti, sono tutti eguali.
E’ mi è venuto da ridere, come margutte, come scarpetta e come rido io
quando chi legge ciò che scrivo viene a dirmi
che me lo sono inventato e non sa che anche lui corre il rischio,
prima o poi, di entrare nei miei versi.

4. L'amico poeta

L'amico, che è poeta, scrive una poesia al giorno. Anche due,
se le muse sono benevoli. Nulla da invidiare ad Ermogene, che se fosse
ancora vivo avrebbe pane per i suoi denti. Del resto, non è il solo:
egli appartiene ad una specie che non ha nessuna intenzione di estinguersi,
come invece le foche e i colibrì che, considerate le condizioni del pianeta,
istintivamente sanno che devono farsi da parte. Strane creature,
i poeti, sempre sicuri che il mondo sia lì in attesa dei loro versi
che illuminino, e diano senso, a un'esistenza che, altrimenti,
sarebbe condannata a muoversi nel buio dello spirito e della materia.

L'amico, che è poeta, scrive una poesia al giorno. Ed è delicato,
e raffinato quanto basta per attivare sinestesie che mettano in comunicazione
l'iride con l'alluce, e poliptoti grazie ai quali domani i giovani
potranno convincersi che la poesia è affare da fannulloni, ed impotenti.
Egli è convinto che le intermittenze del suo cuore coincidano
con quella della storia e che tra le parole e le cose
ci sia un'adequatio simile a quelle che intercorre tra dio e i suoi profeti.

Oggi, per esempio, ha scritto versi che ricordano l'estate
e le pulsioni che con il calore ci invitano a ricordarci
che la specie ha bisogno di riprodursi se vuole sopravvivere.
Parla di vestimenti leggeri, di piogge che rendono trasparenti i tessuti
e fanno della giovanezza un'ebrezza di cui sarebbe troppo amaro
rimpiangere un giorno di non aver goduto. Anche di altro parla,
che un giorno, peut etre, lo renderanno degno
di un premio nobel o di uno scanno da senatore a vita.
Più verosimilmente, non andrà mai a Stoccolma,
nè siederà mai in quel parlamento
dove i poeti, appena prima di morire,
possono finalmente capire che la poesia è affare da fannulloni, ed impotenti.
 




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